di Andrea Caciagli
Greenwich è deserta a notte fonda. Si sente soltanto il vento, per le stradine che salgono a Maze Hill. A pensare alle strade del centro affollate ogni giorno da otto milioni di persone il silenzio dei borghi alla periferia di Londra suona irreale. Mentre cammino al centro del vicolo, lontano dalle case che sembrano tutte disabitate, qualcosa improvvisamente si muove tra le frasche… volpi. Gironzolano selvatiche e libere intorno alle case in cerca dei sacchi dell’immondizia da aprire per cena. Per gli abitanti di Greenwich sono un’abitudine, un’espressione della natura che ha resistito al tempo e all’espansione globalizzata della città. Da un vicoletto ne sbucano due, mi fermo a pochi metri da loro. Una non fa caso a me, impegnata com’è a rovistare il terreno in cerca di qualche scarto, l’altra si blocca d’improvviso e si volta. Ci guardiamo in silenzio. È un’apparizione selvaggia e inaspettata, come il lupo sulla collina di Fantastic Mr. Fox. “Vulpes Vulpes, Homo Sapiens”, penso. Alzo il pugno in segno di saluto, ma lei rimane immobile. Mi fissa per un ultimo secondo, poi si volta e se ne va.
Nelle sale di Londra proiettano Isle of Dogs, l’ultimo film di Wes Anderson. E quale luogo più adatto per vederlo dell’originale Isle of Dogs londinese, una penisola circondata dal Tamigi dove sorgono i grattacieli trasparenti di Canary Wharf, il distretto finanziario della City, quattro fermate di DLR da Greenwich. Ci lavorano centomila persone ogni giorno, correndo da un ufficio all’altro, da un palazzo all’altro per i loro appuntamenti. Qui ci sono le sedi di alcuni degli istituti bancari più importanti al mondo – J.P. Morgan, Santander, Credit Suisse –, ma soprattutto c’è l’Everyman Cinema, che al posto delle classiche poltrone ha dei divani talmente comodi che persino le pubblicità prima del film diventano un piacere.
Perché l’Isle of Dogs si chiami così non lo sa nessuno, secondo alcuni i reali ci tenevano i loro cani da caccia secondo altri il nome è semplicemente la storpiatura del termine docks, dai moli che l’hanno caratterizzata per due secoli. Non lo sapeva nemmeno Wes Anderson quando nel 2009, a Londra per la lavorazione di Fantastic Mr. Fox, si imbatté in un cartello stradale che diceva: Isola dei Cani. E non sapendo cosa fosse, ha voluto immaginarla.
La sua personale Isle of Dogs è un’enorme isola-discarica dove tutti i cani di Megasaki sono stati relegati per volere del sindaco Kobayashi, amante dei gatti, nel Giappone del 2037. Il pretesto per tenerli prigionieri: un’influenza canina che rischierebbe di contagiare gli umani. Quasi tutti i cani che vivono su Trash Island, l’isola dell’immondizia in cui tutta la metropoli scarica i suoi rifiuti, sono ex animali domestici, come Rex, King, Boss e Duke. Tutti tranne Capo, nero randagio con la voce ruvida di Bryan Cranston, fiero capobranco capace di conquistarsi il cibo che si trova nella spazzatura abbattendo a colpi di mandibola la spietata concorrenza degli altri branchi. Non vorrebbero farsi del male a vicenda, i cani di Trash Island, nemmeno i presunti cannibali che abitano la parte remota dell’isola: è la città che li ha messi l’uno contro l’altro costringendoli ad azzannarsi per un sacco di rifiuti.
Quando esco dal cinema un sole poco londinese splende su Canary Wharf. È l’ora di pranzo, e migliaia di persone percorrono i ponti e le strette strade del quartiere, lunghe lingue di terra attorno ai bacini che un tempo ospitavano i moli – e a guardarli dall’alto non sono nient’altro che gli specchi d’acqua che dividono i Middle Fingers, la parte centrale dell’isola dell’immondizia raccontata nel film di Anderson. Tutti a Canary Wharf camminano veloci, apparentemente con una direzione ben precisa. Tutti sono dove vogliono essere eppure appaiono solitari, prigionieri tra i palazzi della loro stessa città.
Jubilee, Northern Line, District, Circle. Incontro molte persone, qui a Londra, da Fulham a Piccadilly, da Brockley a Borough. Malvina, studentessa italiana, Gabriel, chitarrista spagnolo, Kasia, designer polacca. Ognuno di loro è convinto che in questa città chiunque possa trovare la propria dimensione, ognuno di loro ha ragioni diverse per volerla lasciare, un giorno non troppo lontano. Sembra che Londra crei in loro un’euforia e contemporaneamente uno spaesamento: la voglia di scoprire la città e allo stesso tempo il terrore di venirne inghiottiti, schiacciati dalla concorrenza di altri come loro. Anche chi è venuto qui dalle piccole cittadine, chi vuole vivere la metropoli e le sue mille possibilità, si trova a cercare piccole comunità in cui riconoscersi. C’è chi ha la squadra sportiva, chi i compagni di università, chi i colleghi di lavoro.
Persino Capo, il più solitario e controcorrente di tutti i cani dell’isola, ha bisogno di un branco per sopravvivere, di compagni di avventura da chiamare amici, dell’intimità della famiglia che aveva un tempo. Tra i palazzi di vetro dei distretti finanziari, tra le montagne di spazzatura delle grandi città, i cani sciolti cercano una direzione comune verso cui correre, una missione da condividere: che sia rimanere se stessi nel viavai spersonalizzante della metropoli o aiutare un piccolo pilota di nome Atari a ritrovare il suo cane Spots. L’unico modo per resistere, nelle strade di Megasaki come in quelle di Londra, è vivere da randagi, formare il proprio branco e lottare per ritagliarsi uno spazio in mezzo alle case, selvatici e liberi, come le volpi di Greenwich.
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