di Andrea Cassini
L’Alaska sotto le mie ruote è bellissima. La fase di sollevamento, lo ammetto, non è stata piacevole. Dodici ragazzoni in tuta mimetica (perché dovevano mimetizzarsi, poi?) con gli stemmi della Guardia Nazionale mi hanno forato il tetto e lo chassis, mi hanno svuotato dai tappeti, dalla stufa, dalle valigie e dai diari, poi mi hanno legato a due cavi neri che spero essere resistentissimi. Dopodiché l’elicottero si è alzato.
Non nego la mia invidia: l’elicottero è fantastico, un Chinook CH-47 della Boeing, tutto grigio, con due rotori che girano fluidi e due motori turboalbero T55. Ha delle belle linee squadrate, quelle di una volta, un po’ come le mie, ma dev’essere molto più giovane di me e gli invidio anche questo. Un frastuono del genere, comunque, non lo sentivo dal 1950 o giù di lì, quando portavo la gente in giro per Fairbanks – che sa essere una città abbastanza rumorosa se ci si mette, per gli standard dell’Alaska. Dovevate sentire come ridevano di gioia i ragazzini quando mi vedevano arrivare, la sagoma filante, la carrozzeria bianca e azzurra come un confetto; ero la stella del Fairbanks City Transit System, il bus numero 142, che non saltava una fermata tra Bjerrmark e Totem Park.
Quando l’elicottero mi ha sollevato in aria, dicevo, è stato spaventoso. Scricchiolavo talmente tanto che avevo paura di spaccarmi in due. Ma poi mi sono sentito leggero e velocissimo, e ora galleggio nel cielo sopra le foreste di pini e il fiume Teklanika, le ruote sgonfie che penzolano senza peso, il vento di alta quota che mi corre intorno alle fiancate, il sole brillante di metà giugno che si specchia nei finestrini incrinati, e la vetta del Denali, lassù, che mi saluta con un lampeggiare nella neve.
È dal 1960 che non mi muovo con le mie forze; provate a immaginare come mi sento adesso, un International Harvester modello K-5, una scatola di lamiera su quattro ruote costruita al solo scopo di muoversi e improvvisamente inadatta al compito perché mi si era rotto il motore, e anziché ripararlo avevano deciso di togliermelo dal cofano e trasformarmi in un rifugio semovente. Quando mi attaccarono a un bulldozer della Caterpillar, un D8 se non ricordo male, fu umiliante. Quello sgraziato bruco giallo mi trascinò tra i boschi, sullo Stampede Trail, un orribile stradone spianato nella terra che gli uomini della Yutan Construction Company stavano allargando per facilitare l’accesso alla miniera. Quando poi la miniera chiuse, era il 1973 se non erro, io e miei compagni dismessi non servivamo più da alloggio per gli operai. Gli altri autobus furono portati via, ma io no. Avevo un semiasse rotto, non valeva la pena di caricarmi su un rimorchio. Mi lasciarono lì da solo, per cinquant’anni. E adesso che volo sopra l’Alaska, dicevo, provate a immaginare come mi sento leggero. Quest’elicottero dev’essere un angelo che mi accompagna nel paradiso degli autobus, ne sono sicuro, perché in questi cinquant’anni di purgatorio solitario e silenzioso devo essermelo meritato.
Negli ultimi trenta, a dire il vero, era diventato un po’ meno solitario e silenzioso. Prima vedevo passare soltanto qualche cacciatore. La maggior parte tiravano dritto, ma un paio entravano e si fermavano. C’era Bob, quello con i baffoni e il fucile che puzzava di zolfo, che prendeva un po’ di legna per la stufa, si scaldava i fagioli e passava la notte sdraiato sul lettino. Non parlava, non leggeva, non scriveva, mi chiedevo come facesse a non annoiarsi. Panuk invece veniva d’inverno, era un mezzo inuit, credo che cacciasse gli animali per le pellicce, o almeno ci provava, perché la sera beveva diverse birre, seduto sui tappeti con le gambe incrociate, e io avevo qualche dubbio che la sua mira sarebbe rimasta precisa. La cosa che più gli interessava, in realtà, era venire nei boschi per stare un po’ lontano dalla moglie, dai figli, dai colleghi. Tutte queste cose le so perché me le raccontava mentre beveva. All’alba, prima di rimettersi in marcia, mi dava sempre una pacca sul cofano. Mi piaceva.
Poi nell’aprile 1992 è arrivato Chris. Lui vorrebbe farsi chiamare Alex, lo so, ma io lo chiamavo Chris – anch’io avrei voluto un nome più altisonante ma dovevo accontentarmi di 142, è così che funziona. Quando lo vidi arrivare, con la camicia a quadrettoni e gli stivali troppo larghi, pensai che sarebbe durato poco. Era più lucido di Panuk e più interessante di Bob, certo, ma era uno sprovveduto. Non era lì per cacciare. Non era lì per fare un bel niente. Se non vuoi fare un bel niente, pensavo, meglio starsene al calduccio in città a Fairbanks, mica qui nei boschi. Non l’ho ancora capito cos’era venuto a fare sullo Stampede Trail, però ha resistito più di quel che immaginassi.
È rimasto con me per quattro mesi. Forse ho voluto bene a Chris. Non saprei dirlo per certo, non credo che un autobus K-5 della International Harvester possa voler bene a un essere umano, però ero contento quando c’era lui. Forse basta questo. A lui, per quei quattro mesi, bastavo io. Non ero più un semplice rifugio di passaggio. Ero la sua casa. La mia stufa era il suo focolare. I miei tappeti erano il suo salotto. Mi aveva vissuto e mi aveva decorato. Mi aveva ridato uno scopo. A volte si arrampicava sul tettuccio e si sedeva lì, la schiena appoggiata sul sacco a pelo, mentre mangiava cibo in scatola guardando l’orizzonte. Passava lunghe ore buie sdraiato al mio interno, a leggere libri complicati o scribacchiare su un quaderno, con gli occhiali tondi inforcati e una lucetta puzzolente a illuminargli il viso. Aveva un modo nervoso di scrivere, come se avesse paura che le parole gli sfuggissero dalla testa, se aspettava troppo – questo lo so perché aveva scritto anche dentro di me, sulla carrozzeria dal lato interno, frasi bellissime che prendeva da quei suoi libri, tipo questa: “Vi è un piacere nei boschi inesplorati, e un’estasi nelle spiagge deserte. Non amo meno l’uomo, ma di più la natura”, e io mi chiedevo chi avesse scritto quei libri che Chris leggeva e rileggeva, se venissero da un altro mondo fuori dall’Alaska. C’era una sedia sgangherata lì intorno, al tramonto gli piaceva mettersi lì con le gambe accavallate, ed ero contento che, con tutto lo spazio a disposizione, appoggiasse sempre lo schienale della sedia sulla mia fiancata.
Poi, un giorno, non gli bastai più. Incise un’ultima frase sulla mia carrozzeria: “La felicità è vera solo se condivisa”, faceva così, se non ricordo male. Lo sapevo che non gli sarei bastato più, lo sapevo dallo sguardo che aveva quando squadrava l’orizzonte come se oltre i boschi e le montagne ci fosse stato qualcosa di speciale e sconosciuto ad attenderlo. Io non me ne intendevo di quelle cose, vivevo piantato lì dal 1960, però avrei tanto voluto dirgli che per trovare quello che cercava, secondo me, doveva tornare a Fairbanks, in direzione opposta, e da lì proseguire verso quel mondo diverso da cui veniva lui, dove la gente scriveva libri, così magari qualcuno avrebbe letto quel suo diario scarabocchiato, lo avrebbero trovato bellissimo, e lui sarebbe stato un po’ meno triste. Chris andò via e quando tornò era diverso. Poi è morto, raggomitolato sul mio retro, chiuso nel sacco a pelo. Non mi parlava più, in quei giorni, e ho tanta paura che sia morto triste.
Non sapevo esattamente cosa volesse dire essere morti. A me Chris sembrava fermo, come se gli avessero tolto il motore. Me lo spiegarono gli altri, quando cominciarono ad arrivare. Il primo fu un signore, Jon si chiamava, vestito come dovesse scalare le montagne. Di anno in anno ne arrivarono altri, prima pochi, poi tanti. Avevo mezz’ora per conoscerli, poi tornavano indietro, eppure mi trattavano come se fossi una casa. Mi toccavano, scattavano foto, disegnavano ritratti, parlavano con me, mi lasciavano qualcosa sui tappeti. Parlavano di Chris, soprattutto. Dovevano essere tutti suoi amici, pensavo, perché avevano il suo stesso sguardo. Il suo stesso sorriso. Allora dev’essere morto felice, pensavo, sapendo di avere così tanti amici.
Ogni estate era una festa, ogni giorno arrivavano dei ragazzi nuovi, cantavano una canzone che faceva “Society, you’re crazy breed”, e un’altra che faceva “Comes the morning when I can feel that there’s nothing left to be concealed”. E quando quei ragazzi salivano dentro di me, mi sembrava di viaggiare di nuovo perché per loro era come attraversare un portale – questo me lo raccontò proprio uno di loro: era come volare. Grazie a Chris, alla fine avevo avuto anch’io un nuovo e bellissimo nome. Magic Bus, così mi chiamavano.
Ora sto volando per davvero e ve l’ho detto, è una sensazione magnifica stare con le ruote sopra il cielo dell’Alaska, però sto volando da solo, e non lo so se va bene. Non lo so se sono pronto per andare nel paradiso degli autobus, dopotutto. Sono un rottame, la vernice azzurra si è tutta scrostata e ora sono mezzo giallo, ho i finestrini rotti e dei fori di proiettile sul tetto, però dentro ho ancora le scritte che hanno lasciato tutti quei ragazzi, gli amici di Chris. Se questo elicottero Chinook CH-47 mi riportasse a terra, mi andrebbe bene restare fermo ancora un po’, nella mia vecchia Fairbanks magari, per raccontare la nostra storia a chi abbia voglia di venirci a trovare.
Andrea Cassini è giornalista, consulente editoriale e traduttore di Ken Liu per Mondadori e Alex Irvine per Zona 42. Scrive di letteratura, filosofia e cultura pop per L’Indiscreto, e ha pubblicato racconti su numerose riviste e antologie. Insieme a Claudio Kulesko è autore di “Blackened – Frontiere del pessimismo nel XXI secolo” (Aguaplano, 2021). “Non tutto il male” (effequ, 2021) è il suo primo romanzo.
bellissima questa breve storia in tre parole hai toccato l’essenza a mio avviso dell’intera vicenda Chris McCandless.