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Simona non sapeva dare un nome alle cose dentro di lei. Forse, quel giorno del settimo mese dell’anno, provava il riflesso dell’eccitazione, nella luce color latte, che aveva tutta l’aria della pazzia. Guardava Biagio, il bidello, come se fosse una specie estinta, un dodo, un dinosauro, ma il vero problema era che a volte la Manna sprofondava in se stessa come quando l’attrezzo specializzato del chirurgo si perde nei sogni neri del coma: per lei erano momenti dove il liscio del pavimento si trasformava nello sfondo di un vasto regno dove anche le parole erano cose da toccare, da bere, da mangiare, cose che potevi lanciare in aria per scoprirne il peso e che poi ricadevano sempre sulla sua testa tonda affetta da gravità. Era una reazione tutta da capire, anche se per afferrare un solo lemma avrebbe dovuto saltare, ma questo non era già più possibile da diversi secondi, che si innescava ogni volta, malgrado la sua volontà, quando provava gratitudine, la solita consueta reazione. Come prima cosa il mondo diventava un buco colorato e lei sentiva di accelerare improvvisamente verso il centro della terra. E cadeva, cadeva giù, senza respirare per la paura, chiudendo gli occhi, piangendo come un bisturi che versa il sangue del nostro cuore spezzato, martoriato, crocifisso come un vaso rotto. Cocci che non si incollano più. Parole che volano via. La paura di scoprirsi sola ancora una volta. Ma quando nelle sue vene tutto l’ossigeno era stato trasformato in uno scarto, allora lei per non soffocare ancora come un pesce tra i denti di un cane in fuga apriva di scatto la bocca lasciando uscire la schiuma ed emetteva un suono di tappo lanciato verso il cielo, che era un soffitto, a ben guardare. E la gravità smetteva di farla sprofondare.
Adesso i suoi piedi erano mollemente adagiati sul suolo di una stanza piena di libri e documenti e animali impagliati, una grande stanza dall’odore di vecchio tappeto. Tutte le volte sul fondo del suo buco nero situato nel nucleo viscoso e cristallino del mondo, trovava questa stanza odiosa, piena di farfalle spillate, mosche pigre, pezzi di coccio di vasi rotti come il suo cuore. Avrebbe voluto gridare, ma sapeva perfettamente che il suo corpo era fuori dal suo controllo e una volontà altra l’avrebbe spinta ad agire, così, nonostante le lacrime che le scendevano tra le gambe, la Manna si arrendeva e si lasciava trascinare tra i flussi dei suoi spopolati tremiti. Là, nella grande stanza, si incamminava verso il cestino della spazzatura e nonostante la vergogna si calava le mutande e si inginocchiava soffiando con forza l’acqua che le usciva fuori e poi la terra marrone che cadeva tra le cartacce cestinate senza neanche un gesto di rimorso da parte del preside. Solo quando l’ultima goccia di terra si era adagiata nel cestino della spazzatura, solo allora la Manna iniziava a ridere. Rideva come se un terremoto stesse squarciando il suolo del suo corpo, ora crettato, e dalle fenditure iniziava a sgorgare una luce che le ripeteva “il ragazzo della quinta C”, “il ragazzo della quinta C”, ripeteva “il ragazzo della quinta C” e tutto dunque si incappucciava come i sogni neri del coma e la Manna rideva sempre più forte. Allora si alzava in piedi, afferrava il cestino dove aveva depositato i suoi elementi naturali, e andava zampettando leggera e delicata come una mucca che levita sui fiori verso la scrivania del Preside, così piena di documenti importanti, parole piene di gravità che ricadevano sulla sua testa tonda. E lì danzava e lì cantava e lì capiva cosa è la libertà. Dunque la mano destra teneva il cestino della spazzatura e la sinistra con una sicurezza che raramente le era appartenuta si inoltrava tra i rifiuti e assumeva la posa di un cucchiaio per raccogliere tutto quel materiale sporcato dalla sua acqua e dalla sua terra. Lei lo sollevava per annusarlo. Sapeva di mare con i suoi infiniti muschi e di montagna con le sue infinite alghe, tutte mischiate tra loro come pezzi di cuori rotti altrui ricuciti da un sarto impazzito. E con felicità imbrattava la scrivania del Preside, le pareti, cantava, gridava, il pavimento, le parole così piene di gravità, ballava e tremava, contenta, libera, lei stessa fatta d’acqua e di terra, imbrattava tutto finché non c’era più nulla di pulito.
Tutto questo almeno fino a quando qualcuno, nel caso specifico Biagio, non riusciva finalmente a guardala nella pupilla spillata come una farfalla alla parete della Presidenza e le diceva: «Comunque volevo dire che il ragazzo della quinta C spaccia, non che fuma. Cioè magari fuma pure, ma non è per quello che è stato sospeso». E allora Simona, detta la Manna, vedeva un riflesso, nel cane color della luce, che aveva tutta l’aria dell’innesco che la rigettava giù nel nucleo viscoso e cristallino del mondo.
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