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La Manna, dopo aver seminato il Campa, è entrata in palestra.
La palestra era una stanza dove in passato – realizzava a volte la Manna – ci pregavano dei monaci, mentre adesso c’era puzzo di ascelle e si prendeva a pallonate un Cristo in croce.
C’era la rete da pallavolo e le spalliere di legno alle pareti. Qui uno studente più grande si dondolava con un panino stretto tra i denti, mentre un altro, davanti a lui, leggeva a voce alta delle formule matematiche e le ripeteva guardando il soffitto e coprendosi la vista del quaderno con una mano.
Era di giugno e una luce lattiginosa entrava dalle finestre illuminando la polvere dei secoli.
“Solo perché sei paranoica, Simona Mannaroli detta Manna, non significa che non ti stiano cercando”, ha pensato la Manna citando inconsapevolmente i Nirvana (un gruppo che in realtà non aveva mai particolarmente amato), e poi si è seduta per terra tirandosi le ginocchia al petto.
Si è guardata intorno. Teneva la bocca semiaperta in un’aria di perpetuo stupore (per aver inseguito un cane, per averlo creduto immaginario) e si metteva i capelli dietro le orecchie – ma quelli, troppo lisci, dietro le orecchie non ci restavano mai.
Si è accorta della presenza di Biagio soltanto al termine di quel giro periscopico. Il bidello stava spazzando cercando di non fare rumore. Voleva farle paura. Alla Manna piaceva parlare con Biagio perché forse a parlare con lui si sentiva più grande (le veniva un’aria interessante, più originale, del tipo “io con questi pischelli non ci parlo”) oppure perché le ricordava suo padre – pensava a volte la Manna – senza però essere suo padre.
«Alto così» ha detto la Manna a Biagio, il bidello, dopo avergli sorriso per un secondo (quando si vedevano era come riprendere un unico lunghissimo discorso; quando la Manna incontrava Biagio non servivano saluti né convenevoli).
La Manna teneva la mano appena sopra la testa.
«Come?»
«Alto così, occhi verdi, occhiali tondi, niente barba. Mi ha parlato stamattina, non l’avevo mai visto prima».
Un ricordo di qualcosa, pensava a volte la Manna, può essere migliore di quel qualcosa. È più piccolo e più manovrabile.
«5° C» ha risposto Biagio, il bidello, mentre fermava la scopa e ci si appoggiava come un nobile siciliano avrebbe fermato il suo bastone di radica durante una passeggiata.
Biagio era di Enna e si era trasferito in città vent’anni prima con sua moglie e il figlio di tre anni. All’inizio non gli piaceva la città, non ci si trovava bene.
«Cos’è, adesso pensi ai ragazzi, secchioncella?» gli ha detto Biagio, subito dopo.
La Manna è arrossita.
«In realtà – ha ripreso il bidello – il ragazzo che dico io non puoi averlo visto perché è stato sospeso».
«Sospeso per cosa?» ha chiesto la ragazza mettendosi i capelli dietro le orecchie.
Di solito, nel corso di una domanda interessata, la Manna aveva anche un altro tic che erano brevi e insistenti pizzichi al lobo dell’orecchio destro.
«Non lo so per certo, e quello che so non è bello».
Biagio ha imitato uno che si fa una canna, sperando con questo di chiudere la questione. In Sicilia, pensava la Manna, sanno essere molto bacchettoni.
Poi ha pensato che anche suo padre era un bacchettone numero uno e improvvisamente l’idea di mettersi con uno che si faceva le canne l’ha eccitata. La Manna ha guardato quell’idea pizzicandosi il lobo dell’orecchio.
Quel giorno, mentre la Manna era seduta per terra in palestra tenendosi le ginocchia al petto, Biagio il bidello ha costruito un ostacolo, e senza saperlo ha costruito il desiderio.
Sono seguiti poi dei momenti di silenzio durante i quali Biagio si è rimesso a spazzare, come se spazzasse le cattive idee cadute intorno alla Manna.
Lo studente più grande allora ha detto le parole “approssimare all’infinito” guardando il soffitto della palestra.
C’era una breve eco se gridavi, c’era puzzo di ascelle e di piedi se annusavi, e la Manna aveva pensato per la prima volta allo studente di quella mattina in un modo diverso e inaspettato.
Poi, come per cambiar discorso, ha guardato l’affresco del Cristo in croce.
«Ci pensi mai» ha detto rivolta verso Biagio «a tutti questi cristi dappertutto? Ovunque ti giri te ne trovi uno davanti, questa scuola ne è piena. È il simbolo della nostra religione, ci sta, non sto mettendo in dubbio questo, ma è anche l’immagine di un uomo barbaramente ucciso, un uomo morto letteralmente inchiodato a una croce. Un uomo torturato. E noi mettiamo ovunque la sua immagine come se fosse benaugurante. Guarda, tu la porti addirittura al collo».
Biagio allora ha fermato la scopa, ma stavolta invece che appoggiarcisi con tutte e due le mani si è toccato la catenina d’oro che aveva sul petto.
All’inizio, quando Biagio il bidello era arrivato, la città non lo aveva, per così dire, fatto sentire “accolto”.
«Non ti dico che il tuo Dio debba essere un uomo pingue che ride sempre come Buddha; non ti dico neppure di non rappresentarlo affatto come fanno gli islamici, non ti dico di arrivare a tanto. Però che il simbolo di tutta la faccenda debba essere un uomo morente (se non un cadavere vero e proprio) con le piaghe ancora sanguinanti e gli occhi ribaltati, beh questo mi sembra eccessivo».
Biagio ha guardato la Manna negli occhi. Stavolta aveva anche lui un’espressione di stupore, ma era fondamentalmente per prenderla in giro per quella sparata fuori contesto.
«La parola che cerchi è “didascalico”» ha detto poi. Quando ci si mettono, i siciliani sanno essere anche colti, ha pensato la Manna, e ha continuato:
«Il prof di religione oggi ci ha fatto notare che a scuola studiamo due lingue cosiddette “morte” – la Manna fa il gesto delle virgolette con le dita, poi si rimette i capelli dietro le orecchie – il greco e il latino. La prima è la lingua del vangelo di Giovanni, il discepolo che era presente alla crocifissione e che ha deciso di raccontarla in quanto testimone. La seconda invece è la lingua dei carnefici».
I due ragazzi più grandi a quel punto sono usciti correndo dalla palestra, il primo ancora con il panino in bocca come un cane con l’osso.
«Non lo so perché ma questa cosa mi ha tipo scioccata. Ci pensi mai Biagio, che studiamo ancora la lingua del testimone e quella del carnefice, ma non quella della vittima, che pure ci ossessiona e che mettiamo dappertutto?»
Biagio ha alzato un sopracciglio, poi si è messo una mano in tasca e ne ha tirato fuori degli spiccioli. Ha guardato la Manna.
«Comunque volevo dire che il ragazzo della 5° C spaccia, non che fuma. Cioè magari fuma pure, ma non è per quello che è stato sospeso».
Dentro a Simona c’erano molte cose cui non sapeva dare un nome. Di sicuro, quel giorno di giugno, sapeva di provare eccitazione e un riflesso, nella luce color latte, che aveva tutta l’aria della gratitudine.
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