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di Aquiles José Martínez Pérez
«Tutto a posto, secchioncella?» ha detto Biagio.
«Si… Credo…»
«Ma sei sbiancata, ragazza. Guarda che forse non spaccia, o forse non è il ragazzo che dici tu.»
«Cioè, si, sto bene.»
Anzi, sicuramente non è lui. Te l’ho detto: quello di cui parlo io è stato sospeso. E poi…»
«Tutto a posto, Biagio. Davvero».
Ma la Manna sapeva che non era per niente a posto. Anzi, ora era un gran casino: «Riposo assoluto e immediato» aveva consigliato il medico in seguito a episodi allucinatori. «Allontanarsi da stimoli visivi e auditivi. Altrimenti…». In seguito potevano essercene di ulteriori. Alcuni erano evidenti, da quanto folli. Ma altri erano insidiosi. E allora lei non capiva più dove finiva la realtà.
«Prendi un po’ d’aria, almeno.» ha detto Biagio. «Ora ti saluto. Nell’ufficio della preside hanno fatto un disastro che metà basta», ha aggiunto. O forse no. Anzi, no. Questo non l’ha detto Biagio, ha pensato la Manna.
«A domani, Biagio».
«A domani, secchioncella» ha detto, e le ha dato le spalle.
«Biagio, aspetta… Perché hanno sospeso il ragazzo della 3°C?»
«Te l’ho detto: no lo so per certo.» Si è avviato verso l’uscita che dava sul cortile, seguito dal barboncino. Si, dal barboncino. «Ma credo sia stata tu, secchioncella. Credo sia stata proprio tu a farlo sospendere». Ha detto lui, forse. Ed è uscito, lasciando la porta aperta.
Da lì è entrata un’aria fredda. E anche un gran chiasso. Non il solito. Non quel chiacchiericcio che si arrampica sui muri. Erano vere e proprie urla. E risate, anche. Ma, soprattutto, il rullo di centinaia di tamburi.
In un secondo, la palestra si è svuotata. Tutti sono usciti verso il cortile. E tra la folla, anche la Manna è uscita.
«Che succede?» Ha chiesto allo spilungone che le bloccava la visuale.
«Oh! Non vedi? Grandina!» ha detto lui.
Quindi era vero: grandinava.
L’aveva annunciato la signorina del telegiornale la sera precedente. Ma nessuno ci aveva creduto. Grandine? Da quelle parti? Da quanti anni non se ne vedeva? Che poi, la signorina aveva detto “possibili grandinate”, cancellando con quell’aggettivo ogni speranza. Eppure, grandinava. E non chicchi di riso, altroché! Vere e proprie palline da ping-pong che rimbalzavano sul pavimento del cortile ed entravano nei portici.
E lì, nei portici, tutta la scuola si è ammassata. Teste che si alzavano per vedere meglio, corpi che si spingevano, pelli appiccicose. Tutti lì, perché chi sporgeva fuori si pigliava una sassata, urlava e rientrava nella folla.
Poi, tutt’a un tratto, basta. Non grandinava più. Cadeva soltanto una pioggerellina e i portici si sono fatti silenziosi e malinconici.
La Manna è guizzata tra la folla e si è messa in prima fila, davanti al cortile, bianco di ghiaccio.
Non l’aveva mai visto così, nemmeno d’inverno. In città quei pochi fiocchi di neve che cadevano si scioglievano in una manciata di granelli di sale. Non come in montagna, da nonna Graziella, tanti anni fa, prima che morisse.
Ci andavano solo durante le vacanze di Natale. Lì, d’inverno, si depositavano metri di neve. E la nonna, che era già vedova, si lamentava.
«Un giorno mi troverete seppellita sotto tutta questa neve.»
«Vieni a vivere con noi in città, mamma» diceva il padre della Manna.
«Oh no. Io non mi sposto. Qui mi ha messo tuo padre e qui ci resto, fino alla morte.» diceva. E poi, guardando di sbieco la madre della Manna, aggiungeva: «Io qui non do fastidio a nessuno».
«Ragazzi, andate a giocare un po’ fuori» diceva la madre della Manna.
«Toglietevi bene la neve, prima di rientrare» aggiungeva nonna Graziella.
E la Manna e suo fratello andavano nel giardino di nonna Graziella e costruivano pupazzi e si lanciavano palle ghiacciate addosso. Ma quello che a loro piaceva di più era scavare nella neve. Immaginavano tesori nascosti e resti di civiltà antiche. Si raccontavano quelle storie e più ne parlavano e più si facevano vere. Scavavano convinti di trovare un mondo fantastico e invece trovavano neve e ancora altra neve. Poi rientravano intirizziti, con le dita e le labbra viola.
«Vi ho detto di togliervi la neve!» Urlava nonna Graziella.
Ma ormai c’erano chiazze dappertutto. La madre li aspettava in bagno con la vasca fumante. Anche lì lasciavano chiazze insaponate per terra. Poi bevevano una cioccolata calda affacciati alla finestra, discutendo ancora del mondo nascosto sotto il giardino di nonna Graziella, convinti della sua innegabile esistenza. E poi la Manna, di notte, mentre gli altri dormivano, accendeva l’abat jour della cameretta che condivideva con suo fratello e, finché il respiro regolare di lui non le faceva venire l’abbiocco, lei scriveva nel suo diario quelle storie, per non dimenticarle.
Così tutti i Natali, fino al funerale della nonna, che fu d’estate. Quel giorno, insieme a lei, moriva anche la fantasia del mondo che avevano creato, rivelatosi nella sua deprimente realtà: una distesa di erbacce, rinsecchite dal sole, senza un velo di neve.
Nel cortile, rivoli di acqua gelata si trascinavano lenti verso i drenaggi. A la Manna è venuta voglia di fare una palla di ghiaccio prima che si sciogliesse del tutto. Ma non era l’unica. I ragazzi se le lanciavano già addosso, e lei doveva stare attenta a non trovarsi in mezzo. Ma poi, davanti a lei, sotto i portici opposti, l’ha visto: occhi verdi e grigi, capelli castani, niente barba… Si è distratta la Manna e una palla l’ha colpita al petto. È scivolata, poi volata in aria e poi è caduta supina sul pavimento melmoso.
Chissà dove sono finiti gli occhiali. Su di lei sono cadute dal cielo goccioline d’acqua. Ma lei ha visto fiocchi di neve. Anzi, no, adesso li vedeva bene, e non servivano occhiali: erano pappi di pioppi quelli che cadevano, era la lanugine bianca che in primavera copriva tutte le strade. Anzi, no, non erano nemmeno pappi. Erano piume, centinaia, migliaia di piume… Cazzo, ha pensato la Manna: erano piume iridescenti, piume di colibrì.
Poi, intorno a lei, un cumulo di teste la guardavano dall’alto. Poi le palpebra pesanti. Poi nero.
Non vedeva più.
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