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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Inferno | Una giornata da comparsa

29 Agosto 2017 di Salvatore Cherchi

L’appuntamento è alle quattro e trenta del mattino in un vecchio cinema in disuso. La sveglia non suona, ma l’ansia di cannare un appuntamento importante mi fa aprire gli occhi alle quattro e un quarto. Imprecando volo giù dal letto a soppalco, lavo faccia e denti, indosso i vestiti già accuratamente posti sulla poltrona e mi fiondo fuori casa. Con la bici attraverso viali e viuzze di una città in monocromia arancione.
Arrivo all’appuntamento con mezz’ora di ritardo e il fiatone, e scopro che ad aver cannato è stata la produzione. I presenti mi dicono che oltre alla chiamata che ti avvisava di esser stato preso, bisognava ricevere un sms di conferma. Lì, al vecchio cinema, nessuno l’ha ricevuto. Siamo un gruppo misto: giovani e anziani, donne e uomini. Qualcuno col cane. Siamo nervosi e assonnati. Un tipo della produzione sta attaccato al telefono per capire che fare di noi venti disgraziati scartati persino per un ruolo da comparsa, ma non ne viene a capo, così, in un motto di protesta e orgoglio, decidiamo di andare lo stesso dove non siamo stati convocati.

Il campo base della giornata di riprese è l’Istituto d’Arte di Porta Romana. Le scene saranno girate in parte nella scuola, in parte nella piazza tra la Porta e l’Istituto, in parte nel giardino di Boboli, lì di fianco. All’ingresso troviamo centinaia di figuranti come noi, divisi per gruppi, che aspettano di essere chiamati. Ci accodiamo, ma ci fanno entrare per ultimi perché non siamo in lista – niente sms. Intanto le altre comparse si registrano, fanno colazione e vengono prima preparate dalle truccatrici poi divise nei vari set.
Alle sette del mattino, ora d’inizio delle riprese, siamo rimasti solo noi venti sciagurati. Come reietti, andiamo ad arraffare gli avanzi della colazione. Verso le dieci, quando ormai il caldo ha svegliato anche i grilli e sfoltito il gruppo dai più deboli, un tipo della produzione riesce a convincere qualcun altro che un po’ di comparse in più fanno comodo.

Usciamo così dal campo base con la spavalderia delle Iene di Tarantino, pronti al debutto nel grande cinema, ma i nostri sogni di gloria si ridimensionano davanti a una tizia – di cui non saprei definire il ruolo – che ci parcheggia all’ombra di un cipresso per l’intera mattinata. A mezzogiorno ci passa accanto Tom Hanks, e per cinque secondi ci sentiamo parte di Hollywood.
All’ora di pranzo viene allestito un glorioso banchetto di frutta fresca, macedonie, barrette energetiche, crostini, formaggi, salumi toscani e bevande di ogni tipo. A noi consegnano una busta con un panino al salame, una mela e una bottiglietta d’acqua, vietandoci di avvicinarci al catering. Non è cattiveria, solo gerarchie da rispettare, per il resto ci trattano con molta premura. Quando chiediamo quando andremo in scena, ci liquidano con una risposta evasiva ma gentile. Iniziamo ad accarezzare l’idea che non prenderemo mai parte alle riprese, che siamo lì per la pietà verso un sms mai arrivato.

I miei compagni di viaggio intanto si disperdono, e anche io vago per il giardino dell’Istituto come un carcerato nell’ora d’aria. Siamo chiusi lì dentro, perché le riprese si svolgono nel piazzale davanti l’Istituto dove è stato allestito un mercato che nella realtà non esiste. In quella piazza, nella realtà, c’è un parcheggio. Quando il ciak parte i cancelli della scuola si chiudono, forse per evitare l’intrusione improvvisa di un figurante fuori controllo. Li capisco. Ogni tanto ritrovo i miei compagni sotto il cipresso. Chiedo loro se sanno che scena si gira, o di cosa parla il libro, ma nessuno sa niente e a nessuno sembra interessare. Tra loro c’è un ragazzo vestito di tutto punto: camicia bianca, bretelle a vista e pantaloni alla zuava. Un perfetto e anonimo “passante italiano”, penso. Vuole far colpo, essere notato, scalare la piramide cinematografica dal gradino più basso. Poi c’è una signora di mezza età che arrotonda facendo comparsate. Vive a Roma e col marito ha preso parte ai set di 007, Woody Allen e altri film. Parla come se nel mondo del cinema ci sia nata: snocciola aneddoti, dati, indiscrezioni. Si sa muovere bene nell’ambiente e sembra conoscere tutti. Mi chiedo cosa ci faccia ancora qui. Un altro ragazzo continua a ripetere quanto quella giornata di riprese sia penosa, rispetto a quella di Palazzo Vecchio. Per ogni cosa che succede, dentro o fuori dal set, ci dice: «sì, ma a Palazzo Vecchio…», con il tono di chi vuole farti sapere a tutti i costi che c’è stato, alle riprese di Palazzo Vecchio, che è uno che l’esperienza ce l’ha, che non lo freghi così, ma solo se rapporti tutta la sua vita alle riprese fatte qualche giorno prima a Palazzo Vecchio.

Alle sei di sera sono assalito dallo sconforto e dalla pena. O forse è stanchezza. Non abbiamo messo piede in nessuna scena e non ne posso più dei discorsi egomaniaci dei miei compagni. Mi avvicino a un tipo pallido e visibilmente agitato. È una comparsa anche lui, dovrà essere inquadrato in faccia per un secondo netto, in qualità di “pilota di drone”, e dovrà mostrare un’espressione scossa, difficoltà e sudore sono gli imperativi. Non comprendo se si sta calando nella parte o se è semplicemente agitato. Anche se per un secondo, la sua faccia verrà vista da milioni di persone.

Intanto si fanno le sette, e si avvicina la tipa che ci ha parcheggiato sotto l’albero quella mattina: «Ultima scena», ci grida, «andate. State vicino alle bancarelle, fate finta di fare acquisti al mercato, di parlare, di salutarvi, ma non ridete e non guardate mai in camera».
I miei amici si lanciano sul set come ragazzini che aspettano l’ultimo quarto d’ora di partita per entrare gratis allo stadio. Io li guardo correre, ma non ho la forza di seguirli. Qualcosa mi blocca, mi dico che è la dignità. O forse è la paura. Ripenso al “pilota di drone” e al suo volto pallido. Qualcuno si volta per incitarmi a seguirli, ad andare, è il nostro momento, dice, abbiamo aspettato tanto, dice ancora. Io faccio un passo che vuol dire sì, arrivo, sono con voi. Ma mento. Mi fermo alla soglia del cancello. Ho la nausea. Sono combattuto. Capisco che anche se con un ruolo insignificante, sono stato scelto per contribuire a quella messa in scena, un po’ come quando alla recita scolastica si vien scelti per fare il cespuglio. Ma non ho più otto anni, sono sveglio da oltre dodici ore con un panino al salame nello stomaco e le aspettative dei miei compagni di viaggio e di altre centinaia di persone nella testa, gente che come me si è alzata nel cuore della notte per raggiungere il set per un po’ di soldi e gloria. Li ricordo un mese prima ai casting, nei loro abiti migliori, agitati e divertiti, e li vedo tra un anno seduti al cinema, ad aspettare quella scena, quel fotogramma, quel frame dove appare un loro braccio un loro zigomo una loro mano un loro dente un loro ciuffo di barba o capelli e li sento esclamare: «eccomi, mi hai visto!?».
Non ce la faccio.
Il cancello si chiude davanti a me per l’ultima volta. L’ultima scena. Sento Ron Howard gridare action!. Vedo i miei compagni muoversi felici tra le bancarelle del mercato.
Un anno dopo guarderò il film solo per rivedere quella scena. Solo per capire a cosa ho rinunciato.

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Postato in: Oceani di autoreferenzialità Tag: comparsa, inferno, ron howard, salvatore cherchi, tom hanks Fai un commento

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