Come da contratto stipulato con la Toro Media S.r.L., il mio ruolo, durante le riprese fiorentine del film Inferno, era quello di gestire un gruppo di comparse che oscillava tra le 15 e le 50. “Gestire” significava per lo più ammazzare il tempo in qualche modo, raccontarsi aneddoti su cosa aveva visto chi – la nuca di Tom Hanks, le falangi di Ron Howard, i lobi di Felicity Jones – per trovarsi a pendere dalle labbra di chi aveva avuto la fortuna di fare una scena vicino ai protagonisti, di ripetere lo stesso ciak venti, trenta volte in compagnia delle star. Di questi racconti ascoltavamo inebetiti i particolari più irrilevanti: “e poi mi è passato vicino”, “non pensavo che fosse così grasso”, “a un certo punto ha scoreggiato”. La magia del cinema ci aveva letteralmente irretito.
Persino un film del genere, un film per certi versi inguardabile, per certi versi immorale, per certi persino fuorviante, e intendo esistenzialmente fuorviante – un action-thriller in salsa esoterica tra 007 e “La nona porta” (ma senza l’aura di nessuno dei due), così tanto commerciale e poco ironico da rasentare il crimine – persino un film del genere, dicevamo, cela dentro di sé il barlume di magia che altrove splende. Il fatto poi che si tratti d’intrattenimento puro e che l’emozione corra su larga scala e scuota le masse – masse che vedevamo mettersi in fila la mattina alle 5 e spintonarsi e urlare per fare parte della cosa, per esserci – declina la magia su altri e più inquietanti fronti di cui è pleonastico parlare.
Il più delle volte il ruolo di crowd marshall si limitava al concedere il permesso di pisciare, di prendere un caffè, di fumare una sigaretta. Il badge (da crowd marshall) conferiva un alone di rispetto e di automatico “essere dentro”, quando in realtà erano solo 30 euro in più di paga giornaliera e nessuna possibilità di essere inquadrati.
In totale le comparse si aggiravano sulle 850, moltissime delle quali non vennero mai neppure spostate sui set veri e propri e vennero fatte camminare in tondo in uno spiazzo vuoto, per ore, con una telecamera spenta a dare l’illusione.
Non ci era dato rivelare il titolo del film; ai curiosi che ce lo avessero chiesto potevamo dare il nome che era scritto sui camion degli attrezzisti romani, sui badge degli aiuto-regista e sui fogli programmatici: Headache. Chiaramente non c’era fiorentino che non sapesse che l’era i’firme sull’inferno, e solo alcuni particolarmente speciali si perdevano nella trama di un uomo affetto da celafee atroci, un uomo dalla simpatia sottile e i lineamenti sfuggenti.
Svegliarsi presto e bestemmiare, attraversare la città buia, prendere ferie da lavoro (come ho fatto io) anche solo per un’inquadratura, un campo lungo o lunghissimo, per sapere di essere quel puntino laggiù in quella folla sterminata…
E noi che del mostro multimilionario vedevamo lo scheletro in costruzione, che starnutivamo sui green screen (il 4° giorno) e ridevamo degli sketches che il Claudio Bisio francese faceva con il suo stand in (il 2°), proprio noi avremmo serbato il ricordo dorato dell’illusionista che mostra i suoi trucchi, e avremmo aspettato mesi prima di essere pagati e di spendere tutto nel peggiore dei modi.
(Casomai doveste vedere in una scena del film una comparsa che per un istante vi guarda dritto in faccia, una comparsa spaurita e tanto segretamente eccitata di esserci da scordare le regole e rompere in un nanosecondo una magia costruita a suon di milioni di post produzione, ecco, quello è colpa mia.)
[continua…]
Ahaha molto notevolissimo GC!