Ci siamo io e mio padre, poi anche mia sorella e mia madre, un po’ sfuocate, in un angolo.
Gli dico “raccontami del ventennio in Sicilia, della guerra, dello sbarco degli americani”.
Nell’estate del 1943 sopra Siracusa bombardavano che era una bellezza, e chi poteva sfollava dalla città verso quelle zone dove, anche volendo, non c’era niente da tirar giù, che poi in pratica era tutto il resto dell’isola se non si tiene conto di un pugno di case, tre fattorie e un tempio malandato, il sofisticatissimo piano urbanistico prima della moda degli abusi edilizi. Insomma stavano sfollati in campagna, e dopo una notte di schianti e lampi i primi ad uscire per vedere la luce si ritrovano di fronte a uno spettacolo tipo battaglia di Salamina, ma senza i greci. Il mare era sparito e al suo posto qualcuno aveva messo una massa compatta di navi che avanzavano come insetti pigri. Sono gli alleati giapponesi, diceva mia nonna, vedi ora come si danno una calmata questi signori americani, così potremo tornare a casa e dormire in un letto decente con le lenzuola lavate e tutto. Al momento dello sbarco rimase interdetta dall’aspetto ordinario e per niente esotico dei samurai provenienti da oriente, finché qualcuno non le spiegò che erano soldati inglesi o forse neozelandesi, amici degli americani insomma, ma che lei sarebbe potuta comunque tornare a casa e dormire nel suo letto, perché la guerra, almeno lì, era finita. Poco dopo, ancora non troppo sicura di aver capito cosa stesse succedendo, se li vide arrivare al cancello della masseria. Chiedevano acqua. Quando il contadino addetto al pozzo gli portò un secchio con un mestolo fecero bere prima lui, per sicurezza.
In zona scuole medie, dopo essere stata sottoposta alla visione di Schindler’s List in aula multimediale, chiedo a mia nonna se quando era giovane lei c’erano davvero le camionette che arrivavano e portavano via la gente mentre tizi coi dobermann stavano a guardare. Risponde che giù in Sicilia le cose sono sempre un po’ diverse rispetto al resto del mondo, che a quei tempi era ancora molto piccola e che le uniche novità del fascismo per lei erano state le divise nuove (graziose) e un incremento improvviso delle ore di ginnastica. Circa vent’anni dopo, la nonna è morta e torno nell’isola per il battesimo di una nipote. Vengo ospitata a casa dei miei cugini, e una volta rientrati dalla cerimonia mi chiedono se ho voglia di vedere quelli che chiamano i “cimeli di famiglia”. Immagino dentini da latte in vasetti di vetro, fotografie di matrimoni ormai dimenticati e anelli stemmati, ma mi ritrovo davanti una scatola di cartone dimensione gioco da tavolo piena di tessere di partito elegantemente ornate con fasci littori, una serie di onorificenze militari della stessa foggia, ritratti di parenti in camicia nera e, pezzo forte, un foulard stampato con le parole di un noto discorso del Duce, da lui stesso autografato a mano e perfettamente conservato, senza una grinza, senza un segno del tempo, come una reliquia, ripiegato con cura dentro a una busta di plastica. Mio cugino più piccolo vuole sapere se c’è qualcosa in particolare che mi piacerebbe portare a casa per ricordo. Io ripenso alla faccenda delle ore di ginnastica.
Durante la guerra, il nonno è stato preso prigioniero e deportato. Era di stanza in Tunisia con l’unità mobile, ma stavano messi piuttosto male e a un certo punto hanno finito la benzina e sono rimasti a piedi. Allora gli inglesi, che comunque già gli avevano tirato delle belle legnate, se lo sono preso con tutto il reparto e l’hanno portato negli Stati Uniti. C’è rimasto per un bel po’, non si è mai capito dove. Dopo che lo hanno rimpatriato, non ha mai voluto parlare di quello che era successo, e quando la nonna gli ha chiesto di passare ne vacanze a New York è finita che è dovuta partire da sola.
C’è questa storia che girava in casa, del giorno in cui Mussolini, preoccupato dell’eventualità di incursioni via mare, andò a farsi un giro in Sicilia per valutare l’efficacia delle misure difensive, di cui si dicevano meraviglie. Naturalmente i tanto millantati armamenti non esistevano, i soldi non c’erano o se c’erano stavano belli caldi nelle tasche di qualcuno che a tutto pensava fuorché a spenderseli ad uso pubblico, quindi si fece così. Venne organizzato per Benito un piacevole tour panoramico a tappe, durante il quale oltre a godere delle bellezze locali avrebbe potuto sincerarsi dell’inespugnabilità delle coste, idea che a lui piacque molto. Un drappello di uomini ossequiosi lo caricò in macchina e lo scortò fino a una scogliera, dove nel frattempo erano stati posizionati alla bell’e meglio cinque o sei cannoni. Soddisfattissimo, il dictator chiese di continuare il giro, e quelli risposero che assolutamente, ma doveva avere un po’ di pazienza perché le strade erano quello che erano, mulattiere tutte polverose che si intrecciavano come i serpenti, ci sarebbe voluto del tempo per arrivare al secondo avamposto, e tra l’altro proprio in quella direzione c’era una macchia dove crescevano dei fichi d’india senza pari. Così, mentre la vettura dell’ospite illustrissimo disegnava cerchi senza senso tra gli alberi, i cannoni furono caricati su un camioncino traballante e posizionati di nuovo qualche chilometro più avanti, in attesa del controllo qualità. L’operazione venne ripetuta una, due, tre volte e poi via via fino a sera, quando risultò lampante che qualsiasi esercito ci avrebbe pensato bene prima di affrontare quel terribile dispiegamento di artiglieria.
Quando è tutto finito, quelli che ci avevano creduto davvero ci sono rimasti così male che non hanno più voluto parlarne, né per dirne bene né per dirne male. Solo silenzio, come se non fosse mai successo.
Le ore di ginnastica, comunque, a me non sono mai piaciute.
Rispondi