La donna si accascia a terra. Resta inerte per pochi lunghissimi secondi – sbatto le palpebre due, forse tre volte, il tempo sembra infinito – quindi appoggia le mani sul pavimento, stende le braccia, rigide, ferme (le braccia sono due tronchi aggrappati al suolo, l’epidermide si compatta in corteccia e resina), infine trascina il bacino e si abbandona sulle ginocchia. Silenzio. Le dita nodose scivolano lungo i fianchi e con un movimento impercettibile aggrovigliano la gonna nera fino a scoprire le cosce: la pelle, pallidissima, esplode in chiazze scure e corpose di vene e capillari.
Provo a farmi spazio nel capannello di curiosi, riesco a scorgere, tra una testa e un cappello, la sagoma genuflessa della donna. È in quel momento che vedo i piedi nudi: asfalto, fango, fili d’erba, pietrisco, la pianta dei suoi piedi è una strada, è un calvario, è un crescendo di lacrime e patimenti e privazioni, è un succedersi di notti in bianco, è un sentiero di promesse e penitenze. È una vita intera. Sono così assorto nella contemplazione che non percepisco la torsione della sua schiena. In un attimo la donna è distesa con la faccia a terra. La lingua striscia sul pavimento.
– Io certe usanze proprio non le capisco, possibile che ancora oggi si debba assistere a questi spettacoli?
– Ma quali spettacoli, questa è religione, non essere blasfemo.
– Religione? Io non ci vedo nessuna fede a strusciare la lingua a terra in una chiesa.
– Non è la tua fede, è la sua fede. Ha i suoi motivi per farlo.
– A me sembra solo esibizionismo…
– Shhh. Fate silenzio!
– (abbassando la voce) …solo esibizionismo. È tutto teatro.
– Tu non puoi capire.
– Cosa non posso capire?
– Tu non conosci, non sai, se non vuoi vedere esci e falla finita, nessuno ti obbliga a stare qui.
– Shhh.
La donna, prona, striscia lentamente lungo la navata, punta i piedi per spingersi in avanti, con le unghie si appiglia alle fessure nel pavimento, la lingua resta incollata sulla pietra. Una fitta mi fa tremare i denti, il gelo mi riempie la bocca. Penso che vorrei vedere il suo viso. Come sarà il suo viso? Di che colore gli occhi? Cosa vedrei nei suoi occhi? I capelli, raccolti, sono stretti in un fazzoletto che le avvolge la testa. Un fazzoletto nero come il suo vestito. Guardo questa donna contorcersi a terra, allungarsi e rimpicciolirsi, e non ne distinguo più le fattezze umane. Non è una donna, non è una persona, è solo un movimento, un movimento duro e allo stesso tempo fluido che si espande e si ritrae, si dilata e si consuma. Alzo gli occhi, l’altare è troppo lontano. Esco dal portone laterale. La luce mi acceca, mi copro la faccia con una mano. Allora sento le voci acute e strazianti che intonano una lode al Santo accompagnando la processione. Vedo la statua che risplende e ondeggia sopra la folla, si fa largo puntando verso di me.
– Certo che la signora Maria poteva coprirsi almeno in processione, ma non si vergogna?
Due uomini seduti a un tavolino all’entrata della chiesa stanno commentando. Sopra al tavolo una cassetta in metallo con la scritta “offerte al Santo”.
– Ma perché le hai viste le figlie come vanno in giro, non si vergognano di nulla quelle, la grande l’ho vista parlare con il figlio di Tonino.
– Ueee, il figlio di Tonino! Il frutto non cade mai troppo lontano dall’albero!
(ridono)
– Dice che ha pure il fidanzato nel suo paese.
I cori si fanno più impetuosi, sento ogni sillaba di “prega per noi” rimbombarmi nelle orecchie. La statua del Santo mi guarda, mi indica, mi interroga, mi giudica. Sono colpevole. Sì, sono colpevole. Ma non sono il solo colpevole.
La signora Maria si avvicina al tavolino e lascia scivolare una banconota nella cassetta delle offerte.
– Che il Santo l’accompagni e la protegga!, ringrazia uno dei due uomini alzando le mani tremanti al cielo. Dalla tasca tira fuori un’immagine del Santo, l’appoggia sulle labbra per baciarla e la porge alla donna.
Da quel giorno non riesco a dormire. Quando chiudo gli occhi, sotto le palpebre le ombre si condensano. Mi confondono i pensieri, non distinguo più ciò che è reale e cosa è immaginazione. Mi hanno detto che le ombre non esistono, che è la mia testa a inventarle. O forse sono le cose che non riesco a scordare e che vengono a farmi visita, di notte, per dispetto. Eppure io le vedo, le ombre, sono sicuro, si acquattano negli angoli degli occhi e poi si allungano fino a raggiungere il centro e lì si gonfiano, forse in cerchi o in ovali, ma di questo non sono sicuro, non sono sicuro perché in un attimo hanno occupato tutto lo spazio e non hanno più forma, e lo spazio sotto le palpebre è nero, in un attimo, è buio, è un’oscurità senza faccia che si espande e si ritrae, si dilata e si consuma, si dilata e mi consuma.
Rispondi