«L’altra sera ho litigato con un tipo», le dico mentre prende larga la curva della ciclabile sulla quale pedaliamo e si allontana da me.
«Fossimo stati faccia a faccia, con tutta probabilità sarebbe finita a cazzotti», continuo appena si rifà sotto, «ma c’era uno schermo di mezzo, perciò ha prevalso la dialettica dell’insulto personale e dell’eccesso provocatore, come vuole la prima regola della netiquette».
Leghiamo la bicicletta a una rastrelliera appena fuori dal cinema.
Siamo venuti a vedere l’ultimo film di Gianni “Gipi” Pacinotti, l’autore di fumetti che ogni tanto si diletta col cinema. Nel 2011 aveva girato un vero e proprio film, L’ultimo terrestre, tratto da un fumetto di Giacomo Monti (Nessuno mi farà del male, 2010), dove, tra le altre cose, si parla di un’invasione aliena, tant’è che come campagna promozionale fu diffusa una clip del film dove la giornalista del Tg3 Maria Cuffaro annunciava l’arrivo degli alieni. Clip che si diffuse su internet e che, di tanto in tanto, ancora oggi, rispunta fuori e viene scambiata per reale.
Dico “vero film” perché quello che ha fatto poi, da Smettere di fumare fumando ai corti per Propaganda Live sino a quest’ultimo Il ragazzo più felice del mondo, è una sorta di mockumentary in presa diretta, dove la sceneggiatura si intreccia col vissuto reale degli attori in scena, cioè lo stesso Gipi e gli amici-colleghi, cospargendo il tutto di un alone di autoreferenzialità.
«Ma insomma, perché avete litigato?» mi richiede lei appena presi i biglietti.
«Ma nulla», rispondo, «lo sai come vanno queste cose su Facebook…»
«Sì, lo so come vanno» dice, «ma perché avete litigato? Su cosa? Chi ha iniziato? E chi è questo tizio?»
«Una cosa alla volta. Non so chi sia, ma è certo che ha iniziato lui. Ricordi la storia della pietra?» dico.
«La storia della pietra?»
«Come no? Dai, te l’avrò raccontata decine di volte. Comunque, c’avevo fatto un post su Facebook con quella storia, usandola come metafora di alcune vicende politiche».
«Non la ricordo questa storia, ti giuro. Raccontamela ancora».
«Va bene, te la racconto, ma che sia l’ultima».
«Promesso».
«Bene. Quando eravamo ragazzini, e con gli amici si litigava, eravamo soliti poggiare una piccola pietra sulla spalla…»
«Aspetta. Non c’è più posto!»
Siamo dentro. In effetti la sala è piena. Non essendoci posti numerati, siamo costretti a sedere dove capita, cioè in primissima fila, proprio sotto allo schermo, leggermente defilati. Appena preso posto entra in sala Gipi accompagnato dal direttore del cinema e i due iniziano a dialogare.
Il pubblico ride sguaiatamente a ogni battuta di Gipi, e continuerà a ridere allo stesso modo per tutto il film, perché è un film in cui si ride, ma non è un film comico. Si ride con quella comicità spontanea che condisce una relazione tra amici, cioè tra Gipi e Davide Barbafiera, Gero Arnone e Francesco Daniele, suoi collaboratori e co-protagonisti della pellicola; ma ci si rattrista anche, perché un certo rammarico e astio intossica quella stessa relazione, quando l’interesse autoriale, economico e lavorativo sovrasta il legame umano, esperienziale ed emozionale, e lo spettatore è spinto a porsi interrogativi etici e morali: viene prima l’uomo o l’autore, la vita o la storia da raccontare?
Il film suggerisce una risposta che continua a nascondersi dietro l’evolvere della pellicola: da documentario che segue un’indagine per sbrogliare l’interrogativo che muove la vicenda, a metacinema. Un dietro le quinte che va oltre la narrazione del backstage ma trasforma la fase produttiva dell’opera in un’improvvisazione filmica, dove la dimensione autoriale di Gipi – i suoi meccanismi creativi e lavorativi – entra di prepotenza e prende il controllo, detta i tempi, i toni e le tematiche, accentua il narcisismo, la meschinità e la fragilità dell’autore che pervade lo schermo e offusca la linea narrativa fin quasi a prenderne il posto, come un bambino petulante che attira l’attenzione su di sé mentre noi siamo impegnati a darla a qualcos’altro.
A riportarci sul binario narrativo principale sarà un destro ben assestato da parte della realtà, e insieme all’autore ora ci chiediamo quanto in là possiamo spingerci; qual è il confine ultimo dell’autofiction; quanto della vita reale possiamo tramutare in opera prima che quest’opera diventi vita reale e, di conseguenza, se ne assuma tutte le conseguenze etiche e legali. Poi il film finisce in uno scrosciare di applausi.
Mentre Gipi risponde alle domande del pubblico, mi chiedo chi sia il ragazzo più felice del mondo, se l’autore del film per la libertà che ha di narrare e narrarsi come vuole, o lo sconosciuto ragazzo che ha acceso la miccia di tutta la vicenda; o forse chiunque si diletti nell’arte di narrare e narrarsi, usando il racconto come palco prediletto sul quale denudarsi e mostrarsi fragile ma senza imbarazzo agli occhi del mondo; in costante ricerca di approvazione, per il coraggio di mettere in pratica un gesto così intimo e personale, e di condanna, per la sfacciataggine con cui lo mette in pratica, alimentando il suo senso di colpa.
Lascio questi interrogativi in sala ed esco. Fuori l’inverno inizia a farsi sentire. Mentre percorriamo la strada di casa un freddo pungente mi pizzica il viso e le mani, e mi sento leggero e svuotato di ogni pensiero.
«Dunque», mi fa lei, che pedala al mio fianco, «mi finisci di raccontare la storia della pietra?»
«Certo». Riprendo: «da piccoli, in quella fase di vita dove lo scontro con l’altro fa parte del gioco della crescita, il nostro guanto di sfida era una piccola pietra poggiata sulla spalla. Funzionava così: quando due litigavano…»
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