di Simona Visciglia (essi vivono)
Quando suonano al campanello, Lea sta finendo di riordinare la cucina.
«Non ti aspettavo così presto» dice alla sua ospite, aprendo la porta.
«Non abbiamo molto tempo» risponde la donna, mentre si sfila il cappotto di lana pesante. Dà subito un’occhiata alla sala: sul divano, un plaid appallottolato nasconde un libro di scuola.
Lea lo prende: «A sedici anni la scuola non è una priorità. Manuel dimentica sempre qualcosa, se non ci fossi io…», le parole le restano intrappolate tra le labbra e la gola.
L’ospite sta già guardando altro: la sua attenzione si focalizza sulla libreria, un grosso scaffale laccato bianco che ricopre un’intera parete: «Vi piace leggere, vedo. C’è un po’ di tutto, dai classici ai best seller e diversi titoli fantasy».
«Zoe ama le saghe, Alberto è da gialli, tutto il resto è il mio mondo. Manuel, che te lo dico a fare? Lui è allergico alla carta stampata. Ma ora vieni, ti preparo un caffè, così ti mostro la cucina».
Le due donne lasciano la stanza che al mattino è inondata di luce: una grande portafinestra dà sul terrazzo, dove si intravedono, attraverso le tende bianco panna, vasetti di varie misure che colorano di verde l’intero perimetro.
«C’è ancora un po’ di disordine. La mattina è sempre così, facciamo colazione tutti insieme. È il momento che preferisco: le chiacchiere a tavola, a sgranocchiare biscotti; il latte caldo o il caffè, le tazze, ognuno di noi ha la sua con il nome stampato sopra».
«Manca la tua» dice la donna, lasciando allo sguardo il punto interrogativo.
«Mi è caduta pochi giorni fa. Le mie mani, lo sai, ci sono momenti in cui mi mancano le forze. Insomma, mi si è rotta e non la compro un’altra, oramai» risponde Lea, abbassando il tono della voce, come quando si racconta un segreto indicibile.
Mentre aspettano il caffè, l’ospite apre le ante: «Kellogg’s integrali, fette biscottate, penne lisce, eliche, spaghetti n.8, riso Venere. È tutto così in ordine!» esclama.
«Di solito facciamo la spesa insieme, con Alberto, ma poi sistemo tutto io, lui è un disastro. Te ne accorgerai. Dice che gli artisti sono così, ma in fondo io amo il suo caos».
Lea poggia le tazzine sul vassoio, con la mano cerca di cancellare una macchia sul tavolo. Prende la zuccheriera, toglie il coperchio sbrecciato, ma il cucchiaino rimane a mezz’aria: «Che stupida che sono… Naturalmente anche tu lo prendi amaro».
Poi restano in silenzio, in sottofondo il ronzio appena percettibile del frigorifero, sul quale sono attaccate tantissime calamite colorate, souvenir dei loro viaggi.
«Ti mostro le camere da letto, se hai finito qui» dice alzandosi, tradendo irrequietezza nei movimenti affrettati. L’ospite la segue.
La camera di Zoe è piccola, il letto con la trapunta rosa confetto, una scrivania, il portatile, lo scaffale con i libri di scuola e, poggiate ovunque, statuine in resina di personaggi fantasy e manga: «Sono regali delle amiche di Zoe, ma questa», Lea ne indica una che raffigura Harry Potter, «gliel’ho presa io quando aveva dieci anni. È stata la prima della sua collezione».
La camera di Manuel è più grande: i pesi in terra, le felpe sulla panca per gli addominali, il letto sfatto, i calzini sporchi gettati alla rinfusa sul parquet: «Lui è così, come il padre: un vulcano, nel bene e nel male. Se gli gira, però, è dolcissimo».
«E questa è la nostra camera invece», Lea si affretta a metter via uno slip lasciato sul comò da Alberto.
«Non dirmi che ti imbarazzi! Con me?» la apostrofa l’altra con prontezza, afferrandola per il braccio, in un gesto intimo e quasi di rimprovero.
Lea le risponde con un’alzata di spalle e un sospiro senza suoni.
L’ospite si sofferma a guardare le foto sui comodini, dei bimbi piccoli e del giorno del matrimonio. Vicino ai ritratti di famiglia, c’è anche la fede. La donna prende l’anello, se lo rigira tra le dita, fa per infilarselo all’anulare, ma poi lo porge a Lea. E lei non esita a spiegarle perché non lo indossa: «Mi sono dimagrite anche le dita».
L’ospite, imperturbabile, si china sul letto, annusa le coperte che profumano di lavanda.
«Rilassa, la lavanda» sottolinea Lea «Dio solo sa se ne ho bisogno».
«Per oggi può bastare,» dice l’ospite guardando dritto negli occhi la padrona di casa «devo fare un salto al Laboratorio per altri controlli. Non vogliamo che mi accada quello che è accaduto a te. Noi possiamo continuare anche domani, se te la senti».
Lea annuisce, mentre le porge una chiavetta USB che teneva stretta in tasca: «Qui ci sono i miei diari, come mi è stato chiesto. E ho trovato anche questi», dal cassetto del comò tira fuori dei vecchi quaderni: «Sono di qualche anno fa, qualcuno addirittura di quando ero bambina».
La donna prende tutto, con aria soddisfatta: «Bene, così partiremo da questi la prossima volta».
«Sarà complicato» risponde, abbassando lo sguardo.
Poi riprende fiato e aggiunge: «Anche questa visita è stata complicata. Non è solo quello che vedi… Come posso spiegarti l’odore che sento qui, in questa casa? Che non esiste altrove, che è solo nostro, di queste pareti, dei mobili, dei nostri respiri, delle lacrime, delle risate, della polvere nascosta da anni di vita insieme. Riesci a sentirlo tu?»
«È la procedura, non c’è altro modo, lo sai. E dovremmo iniziare a programmare gli incontri anche con il resto della famiglia»
«Manuel e Zoe non sanno ancora niente di te e Alberto… beh, ci sto lavorando».
La donna le risponde con uno sguardo che traduce finalmente una velata empatia.
Poi Lea la accompagna alla porta.
Restano alcuni secondi nell’ingresso, ingombro dei giubbotti dei ragazzi appesi vicino allo specchio, nel riflesso i loro visi identici: quello di Lea e quello di chi prenderà il suo posto quando non ci sarà più.
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