di Giovanna Daddi
«Lei sta per sposarsi, te lo avevo detto?»
«No. Non con te, mi pare di capire»
«Perché devi sempre fare la stronza, Anna?»
«Tu sei depresso e io cerco di scuoterti dicendo cattiverie gratuite. È così da sempre»
«Ascoltami: lei si sposa con quel tipo Ivy League pieno di soldi, che abbiamo conosciuto all’evento del Rotary»
«Bene per lei, cosa volevi, che si rovinasse la vita sposando te?»
«Vaffanculo».
Sono stata un po’ dura con Leo.
«Puoi sempre presentarti in chiesa sconvolto, sudato, con la camicia fuori dai pantaloni, gridando il suo nome e portandola via dall’altare»
«Credi che mi seguirebbe?»
«No, ma almeno avremmo qualcosa di cui parlare per anni».
Sto lì a laccarmi le unghie, seduta sulla mia poltrona nel nostro appartamento, quello che dividiamo da tanto tempo.
Spesso contiamo insieme i giorni, è il nostro blues domestico.
«Ti piace questo colore?»
«Sì, non è abbastanza rosso da darmi fastidio, allo stesso tempo ha qualcosa di vivace. Mi piace guardarti mentre ti dai lo smalto: sei concentrata, la ruga che ti si forma sulla fronte ti dà un’aria meno scema del solito»
«A volte vorrei affogarti in una piscina e restare a guardare il tuo cadavere di inutile disoccupato che affiora a testa in giù, sai?».
Leo scivola piano dalla sua poltrona, consunta quanto la mia ma verde, di pelle – l’ha rubata letteralmente da un centro raccolta rifiuti, in effetti era ancora in ottimo stato – rotola sul tappeto che la padrona di casa ci ha lasciato, impietosita dalla nostra indigenza, e resta disteso. Si accomoda bene, come un cadavere composto, mette un piccolo cuscino turco sotto la sua testa di cazzo, indossa i Ray-Ban scuri e sta lì, fermo. Allarga le braccia e mi fissa, dalla sua posizione da morto.
«Sembri Benjamin Braddock in piscina»
«Così mi sento: in piscina, nella piscina del mio fallimento, mentre tutti pretendono cose da me, e si affannano a darmi consigli non richiesti».
Ogni volta che abbiamo questo tipo di conversazione, più o meno ogni giorno, penso che quella che chiamano tecnicamente depressione, questa cosa che affligge Leo, in realtà sia la condizione normale per noi, l’essere in debito con qualcuno che “ti ha cresciuto-mantenuto-aiutato”.
Il terrorismo del cartellino da timbrare fa apparire attraente anche il fallimento condito dal diazepam, che filtra goccia dopo goccia negli angoli dei nostri cervellini fritti: una vinaigrette di autocommiserazione spruzzata sopra fettine di carne putrida, per camuffarne l’odore.
Oh, sparite tutti. Che ne volete sapere degli abissi delle nostre menti voi, che a trent’anni avevate già tutto assicurato.
Forse voglio affogare anche io nella piscina con Leo.
«Ehi Leo, com’è la madre della tua ragazza che sta per sposare uno stronzo?»
«Orribile, è una donna orribile»
«Meno male, almeno non corriamo il rischio che tu ci provi con lei in un albergo di quart’ordine. Vero?». E poi ogni volta che sento Mrs. Robinson mi viene da piangere.
«Piuttosto ucciderei il mio cane»
«Non hai un cane. In compenso hai un problema: devi riprenderti lei».
Mi fissa dal tappeto-piscina, mi sembra quasi di vedere l’acqua trasparente riflessa nei Ray-Ban a specchio. Vado in cucina, apro il frigo sghembo e mi prendo una Sprite (cazzo, nemmeno un Chinotto!), torno in salotto e me la bevo, con la cannuccia, succhiando rumorosamente per rompere il silenzio di questa parodia di spleen, manco fossimo Rimbaud e Verlaine tisici chiusi in una stanza di Parigi. E poi so che a Leo dà fastidio il rumore del risucchio. Mangio la noia, moscia come le patatine stantie che stanno nella dispensa da circa un anno.
Non siamo la signora Robinson, non siamo Elaine, non siamo neanche Simon e Garfunkel. Siamo esattamente Benjamin, Benjamin Braddock.
Ci basta solo una piscina, anche sporca, e qualcuno da portare via da un altare.
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