Essi Vivono ST02, ep01
di Giulio Papadia
In tv c’è il Drugo Lebowski, in una delle scene in cui è meno lucido. «Il signor Treehorn tratta gli oggetti come donne, lo sapeva?», blatera in stato confusionale.
Il riflesso dello schermo rimbalza l’immagine di me, fatto come una pigna. Non so se continuando a fissare lo sguardo sul display riuscirò a distrarmi dal cadavere di Zeno adagiato accanto a me. La sua carcassa comincia a puzzare di molto, o forse è solo la mia impressione. Zeno era un alano di cento chili che Mara mi aveva appioppato per il weekend, e non penso reagirà bene appena scoprirà che è in necrosi avanzata sul mio pavimento.
A mia discolpa posso dire che non immaginavo fosse una bestia di tale portata: quando ho accettato di prenderlo in custodia credevo si trattasse del solito bastardino nano che mi parcheggia in casa quando le parte la fregola di salvarli dal canile. E invece eccolo là, il mostro bavoso e putrescente.
La squinzia la vedo da un paio di mesi e questo rapporto malato per cui mi smolla cani di varie taglie e si sdebita con prestazioni sessuali di varia natura – di solito direttamente proporzionali, in durata e perversione, all’impegno che il cane richiede –, mi porta a credere che l’alano poteva valere molto. Ma ormai non importa più.
Mi rimiro nel venti pollici, per un gioco del riflesso o per uno scherzo del THC si sovrappongono la mia faccia e quella di Drugo, in un’identificazione che per qualche secondo non è più solo somatica ma comincia a invadere la sfera interiore.
Riaffiora un dettaglio che devo aver letto da qualche parte, secondo cui nella prima stesura del film Lebowski era l’erede di Ernő Rubik, e viveva di rendita grazie al celeberrimo cubo. Ci ripenso e comincio a credere che quel tontolone di un alano, fra i vari oggetti rosicchiati qua e là, deve essersi ficcato in gola il mio cubo di Rubik, che guarda caso è sparito. Vuoi vedere che è morto così?
Quest’aria soffocante e addensata dal fumo l’ho insufflata così a lungo che mi sta inacidendo i polmoni. La serata ha perso ogni logica e si è fatta un cumulo di fotogrammi scissi e poco nitidi.
Ora devo prendere in mano la situazione perché il fetore, immaginario o reale che sia, comincia a fendermi le narici e le sinapsi. Di chiamare Mara non se ne parla, dovrei rivelarle il modo atroce in cui forse il suo cagnone s’è strozzato, poi lei mi urlerebbe cose indicibili, cose che si amplificherebbero fino a svegliare i vicini, con le pareti di pasta sfoglia che mi ritrovo. Fosse per me, una buca in qualche giardino di periferia e tanti saluti. Ma Zeno non era roba mia, e Mara preferirebbe senz’altro smaltirlo come la legge prevede: quindi devo portarlo dal veterinario, che provvederà ad affidarlo a una ditta specializzata, e probabilmente verrà cremato in mezzo a gatti randagi avvelenati, quintali di cistifellee e residui di liposuzioni. Meglio che lo sappia a cose fatte, potrò inventare una balla qualsiasi per coprire le mie responsabilità.
Solo che il dottor Cagnano è dall’altra parte della città, non ho un’auto e devo farmi sette fermate di metro per arrivare a destinazione. Ma come ce lo porto il bestione maleodorante in metro? Ho l’impressione che darei nell’occhio. Mi viene in mente solo un modo: devo metterlo nel trolley più grande che ho e trascinarlo.
Nella valigia riesco a caricare, oltre al pesante ospite, qualche tonnellata di paranoia strisciante per rendere ancora più disagevole il trasporto. Sulle scale, vicino ai tornelli, nel treno, la calura estiva contribuisce a togliermi serenità. È una grande città qualsiasi, ma potrebbe benissimo essere Los Angeles. Sciama un vento appiccicaticcio che renderebbe preferibile qualunque altra latitudine. Sudato e stravolto, mi accartoccio su me stesso e comincio a sognare. Dettagli nitidi, reminiscenze fin troppo concrete ma che si dilegueranno appena aprirò gli occhi.
Il nervoso e ostico pattinare delle rotelle – del mio trolley! – mi desta da quell’estasi meditabonda e mi riporta al qui e ora: «cazzo, mi stanno fregando la valigia!»
Vorrei rincorrerlo quello stronzo, e nello shock del risveglio ripenso a quel sogno breve e confuso. Vorrei avere il fiato di inseguire l’imbecille, che per qualche ragione incomprensibile riesce ad allontanarsi – ma come fa? – veloce e disinvolto malgrado il peso abnorme dell’alano, convinto di avermi depredato di chissà quale inestimabile tesoro. Vorrei proprio, magari riuscirei pure a rimandare indietro ‘sti ricordi flosci, ma non mi va di spolmonarmi in una corsa inutile, fa caldo, ho le vesciche sotto ai piedi e le suole di plastica pronte a tradirmi.
Se a casa ho ancora del latte fresco mi preparerò un white russian. Nessuno saprà mai come sono andate le cose, mi dispiace solo di perdere quel trolley così bello e capiente.
Fanculo, penso, chissà che faccia farà quando aprirà la valigia.
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