di Lavinia Ferrone
E così se ne accese un’altra. Senza pensare. Fumava da che avesse imparato a prendere un istante per sospirare. Un gesto automatico quello di aprire il pacchetto e tirare fuori una sigaretta. Appoggiarla al centro della bocca sull’estremità delle labbra e darle fuoco con un accendino. Apparentemente niente di controllato, un’abitudine che andava di pari passo con ogni suo gesto del quotidiano. Ma proprio perché ogni traccia delle sue azioni seguiva un comando dettato dall’inconscio, anche il suo fumare distratto era divenuto inevitabilmente un piano sequenza di azioni ben precise che non prevedeva interruzioni. Non c’erano tagli, non c’era un montaggio. Uno dietro l’altro compiva quei gesti tante, tante volte durante il giorno. Che dovesse smettere era chiaro da tempo. Pressione alta, voce roca, tosse nervosa. Fu proprio quando prese coscienza di questo che capì il senso reale di quel rituale così scontato eppure così fondamentale.
Ogni sigaretta fumata non era piacere di per sé. Non era il piacere del momento, non era la pausa e tanto meno il gusto, figurarsi. Fumava per arrivare all’ultimo tiro. Per quel momento di estrema estasi al quale è in grado di condurre il senso del sublime. In sé drammatico, come lo è la presa di coscienza del dover lasciare andare qualcosa. L’atto della separazione. Che si allontana completamente da ogni legge teorico matematica, come il respiro che dà il concetto di limite, sapere che tra due numeri ve ne sono infiniti. Il momento che invece lo avrebbe imbrigliato nelle sacrosante e troppo terrene leggi della fisica. Il distacco. E così fumava, avidamente, per arrivare a provare quel brivido che ha il gusto dell’irreversibile. Inspirava sempre più profondamente e velocemente, uno dietro l’altro dava colpi di diaframma. Sembrava che tutta l’aria contenuta nel cielo potesse ad ogni suo battere di ciglia confluire con un moto convettivo al centro del tabacco pressato che come l’occhio di un ciclone attirava a sé tutte le correnti che in quel momento attraversavano la terra. Fino a trovarsi, confuso, il punto B di quel vettore che segnava la distanza tra lui e la fine di quella sigaretta. Come ogni tormento, questo gli creava un piacere immenso che gli impediva di smettere di fumare. La condanna e la salvazione sono due facce imprescindibili di una stessa medaglia. Sapere di dover smettere ma non poterlo fare. Come amare fino ad odiare, amare così tanto da volersi allontanare perché con la distanza si riconferma la presenza.
Come è strana l’esistenza quando misteriosa ci conduce nel cuore del suo paradossale labirinto lasciandoci esterrefatti e perduti all’ombra delle sue pareti insormontabili. Eravamo partiti e ci sembrava un gioco, eppure addentrandosi si ha la sensazione di essersi persi fino al punto in cui si rimane fermi, fino al punto in cui se ne rimane imprigionati.
Tre, quattro, e poi espira. Cinque, sei, di nuovo. Sette, otto, nove. Si avvicina quel momento. Fino a che il caso non sopraggiunge, imperscrutabile forza dell’universo, in grado di fare cambiare la direzione anche alla più navigata delle rotte. E così un sobbalzo fa cadere in terra la sigaretta ben prima di quello che poteva essere il suo ultimo istante, interrompendo il ciclo di ciò che avviene sempre da sempre. Dura un attimo il senso di smarrimento, come aver trovato una scorciatoia tra due pareti del labirinto. Si pensa a cosa fare, intraprenderla potrebbe complicare ulteriormente l’uscita dal groviglio, restare fermi è un arbitrario atto di forza verso se stessi. Cosa fare.
Neanche le più potenti regole del cosmo, pur venendo in nostro soccorso, sono in grado a volte di cambiare il corso degli eventi.
Quando la voce del Super-io grida affamata, non vi è sordo che non senta.
Tirò fuori dal pacchetto un’altra sigaretta, e ricominciò tutto da capo.
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