di Giulia Scialpi
Qualcuno, non saprei dire chi, un giorno aveva detto che l’autunno è la primavera degli universitari.
Il cinque ottobre del duemiladiciotto, alle quattordici e quarantatré, mi è arrivato un messaggio che diceva: «Non pensavo fossi così tanto naïf!?». Leggendolo devo aver riso: di una risata non proprio convinta, ma almeno convincente. Potrei anche aver gettato la testa all’indietro e una furtiva occhiata intorno.
Mentre questo accadeva, ce ne stavamo ancora tutti al caffè davanti alla mensa universitaria – erano appena finite le vacanze estive – dove ci incitavamo a vicenda a un indefinito temporeggiare sui nostri primi impegni autunnali.
Il messaggio che alle quattordici e quarantatré illuminava lo schermo del mio cellulare era stato digitato alle quattordici e quarantadue da dita sveltissime, le stesse che poi avrebbero tamburellato nervose per mezzo minuto, in attesa di una risposta (che comunque non arrivò), sulla superficie ruvida di un tavolino a due passi dal mio.
Guardando nella sua direzione, mi chiedevo se a un certo punto si sarebbe stancato e sarebbe venuto a parlarmi.
Il suo messaggio mi arrivava in risposta a quello che era stato inoltrato a mio nome su un gruppo WhatsApp dove giocavamo a fare a gara di autoironia davanti ai nuovi membri aggiunti, i nostri nuovi colleghi. Lei, che portava avanti il gioco, era la mia migliore amica – o forse non era – e di sé aveva appena scritto: «Piacere, ho ventidue anni e amo la pesca sportiva di trote». Era simpatica, in certe cose brillante, e quindi irresistibile. Così, mi aveva convinta a darle il mio cellulare e, senza indugi, aveva digitato: «Ciao, nel tempo libero mi piace immergere le mani in sacchi di legumi».
Le notifiche e le risate suonavano tutte insieme, sparse fra i tavoli. Io pure sorridevo, benché non sapessi, fino in fondo, se ci fosse veramente da sorridere, o non piuttosto da temere che gli altri ridessero proprio di me.
Che fossi naïf me lo avevano detto altre volte. Non ci avevo mai fatto caso, avevo sempre alzato le spalle (gesto, mio malgrado, naïf come pochi altri), al limite inclinato la testa come a chiedere spiegazione, ma senza mai davvero volerla.
In quelle occasioni, mi tornava sempre in mente Amélie e il pensiero che in una realtà parallela alla sua, ovvero i corridoi della mia università, lei sarebbe stata la ragazza strana con cui nessuno parlava mai, pur sapendo che con lei, dopotutto, bisognava essere gentili.
Che Amélie Poulain fosse solo una giovane parigina alienata dalla vita e patologicamente addentro a quella degli sconosciuti intorno a sé, priva di ulteriori interessi di qualunque genere (ad eccezione di quei suoi petits plaisirs), dal titolo di studio non specificato, indifferente all’amore e a questioni affini, una che si limitava a sperare di ottenere modesti riconoscimenti sulla propria persona (tipo non avere des os en verre), be’, tutto questo si poteva ben credere.
Eppure io sapevo che doveva esserci dell’altro, cioè tutto il resto che di Amélie non si vedeva. Forse lo scarto di silenzio fra homo fictus e homo sapiens, concetti con cui i miei colleghi, tra l’altro, dovevano essere pienamente familiari. Per me Amélie era piena di atti mancati. Di parole mancate, come nei sogni quando la voce non esce. In cos’altro ero uguale, io, ad Amélie – quella ragazza allungata e dai capelli a scodella (che pure, francamente, mi avevano innamorata) – mentre mi lasciavo descrivere da altri, se non nella nostra comune, dolorosa, assenza di parole? Qualcuno mi aveva descritta attraverso di lei, ma, curiosamente, lei non descriveva mai se stessa – non a parole, almeno, né si lasciava mai coinvolgere in dialoghi memorabili. Il silenzio era, in verità, ciò per cui tutti ricordavano Amélie.
A me restava l’impressione che ci fosse qualcosa di più in lei, una cosa che a un certo punto smetteva di essere «francese», o «femminile», o «tipica delle donne dei film». Uno stile taciturno e in punta di piedi, quella cosa esistenziale del silenzio, che non capitava a lei perché lei era una donna, ma capitava a lei e basta. A volte se ne stava soltanto con le labbra morbidamente riposte una sull’altra, che pareva non avessero pesi da trattenere, e invece per me era il gesto di una resistenza privata, quella di non farsi stordire dai riti e dai rumori che si devono fare intorno ai tavoli, in cambio della vaga illusione di sentirsi appartenere.
Che Amélie Poulain fosse un tipo vuoto, una trovata romantica impacchettata per adolescenti, qualcuno dei miei rampanti colleghi seduti fra quei tavoli avrebbe esattamente potuto crederlo. Ma qualcun altro – che mi guardava di sbieco ogni tanto, lanciando le sue iridi e le sue pupille al di là dei passatempo di gruppo, non appena riusciva a sbrigliarsi dai suoi interlocutori – di certo non lo avrebbe creduto. Lo avrebbe smentito più a fondo, messo in questione. Non avrebbe né domandato con impertinenza, né assunto con arroganza. L’avrebbe detto a mezz’aria, con una scintilla minuscola nell’occhio. Combinare punto di domanda e punto esclamativo non era già, del resto, il modo più naïf possibile di stare al mondo?
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