Quando compii dodici anni di vita scappai di casa, in una primavera di fine anni Novanta.
Scappai di casa per motivi abbastanza prevedibili, seppur secondari ai fini della narrazione che voglio fare adesso. Scappai di casa perché scoprii che la mia famiglia non era la mia famiglia, particolare ripeto del tutto irrilevante.
Presi dunque un treno, acquistando un biglietto con aria falsamente sicura, come fosse cosa comune per me dodicenne girare nelle stazioni e in generale nel vasto mondo. Il treno che presi in quella primavera mi doveva condurre, e lo fece, a una città costiera, dove risiedeva uno zio adoratissimo e diverso da ogni altro adulto io conoscessi, zio che mi avrebbe spiegato di chi fossi realmente figlio. O almeno così prevedevo.
E fu con questo spirito che partii, come si parte sempre: incerti su molte cose, il binario giusto, se sia il nostro o quello vicino il treno a muoversi e in generale su molte altre cose che ci circondano: gli adolescenti che sembravano così interessanti e maturi e non lo erano, le donne e le loro singolarità (che forse a guardare bene scomparivano, come quelle di ciascuno). Io dopo un po’ provai solo a guardare fuori dal finestrino la campagna che digradava nella pianura, la vegetazione che poco a poco si faceva marittima. Poi da Pisa il treno era come se cambiasse motivazione: rallentava ancora di più e iniziavano le tante piccole stazioni dai nomi vagamente esotici: Vada, Principina a Mare, ed altri che non ricordo più.
L’uomo portava fuori il cane dopo cena, più o meno sempre alla stessa ora. Vide un fagotto sotto una siepe di alloro e di pitosforo. Là dove di solito solo qualche cacca di cane, c’era qualcosa. Il cane scodinzolò, come faceva del resto –stolido– spesso, senza che il padrone ne ricavasse alcun significato particolare. Era un bambino rannicchiato. Il cane fece come un mezzo semicerchio attorno, incerto su cosa fare, se lasciare dormire l’umano e passare all’aiuola successiva, interessato in fondo come sono i cani solo e soltanto agli altri loro simili e disinteressati a tutto il resto. L’uomo fu attratto dal gesto del cane, e si avvicinò. Rimase perplesso come era stato il cane (che fossero più simili di quanto pensassero?) se andare semplicemente avanti nella sua passeggiata intorno all’isolato. Era una serata di primavera come tante, era un giovedì. L’uomo non pensava a niente, né all’amore, né al lavoro, né al futuro. Non pensava a niente in particolare, era la sua una vita normale, una vita in fondo con cui lui stesso, Arrigo, neanche si identificava troppo. Poi si avvicinò al bambino e lo svegliò. Che fai? Eh? Come? Che fai qui? Cercavo lo zio, ma lui non c’era. E quel bambino ero io.
Abbiamo continuato a scriverci delle cartoline postali per molti anni, dopo quella notte. Cartoline che avevano per oggetto non tanto le motivazioni della mia fuga, non tanto le novità e successive scoperte su quale fosse la mia vera famiglia, non sulle ragioni che mi avevano portato a credere di essere stato adottato (scoprii che non era vero, mi ero semplicemente convinto di essere stato adottato leggendo un romanzo –seppur ancora oggi che sono passati vent’anni un lievissimo dubbio rimane–. Le cartoline contenevano dei semplici saluti, o delle domande essenziali: come va? O dei semplici auguri di buon natale.
Arrigo era vedovo e aveva occhi cisposi, ricordo solo questo di lui. Mi fece dormire sul divano finché mio padre non arrivò con la macchina, a tarda notte, a riportarmi a casa. I mie genitori o presunti tali mi mettevano ogni Natale sotto le mani una cartolina indirizzata a lui, e io la scrivevo, in verità senza nessuno sforzo, anzi con grande naturalezza. Lui mi rispondeva sempre, con la sua calligrafia svolazzante, seppur in stampatello. Abbiamo continuato per anni a scriverci, non solo cartoline, ma anche lettere più articolate, alcune in cui riflettiamo sulla vita, sul futuro, sul suo lavoro che non c’era più e anche sulle mie ambizioni assurde di bambino. Cose così. Mi scrisse ancora a distanza di anni che già le nostre lettere si erano diradate sempre di più fino quasi a cessare e io ero da poco diventato maggiorenne, mi scrisse un’ultima volta quando morì il cane, di vecchiaia, o almeno così dichiarò Arrigo –seppur sulle ragioni della morte ancora oggi un dubbio rimane– e conservo da qualche parte nella camera a casa di mia madre la foto di quell’animale che mi salvò la vita.
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