di Jordan Kaspar Baldassini
Nel luglio del 2018, quando il caldo estivo cominciò ad annebbiare e offuscare l’aria in cui il pensiero dovrebbe muoversi liberamente, decisi che era giunto il momento di tornare a Berlino, con la speranza di sfuggire a una indeterminata sensazione di vuoto, intrecciata ad una altrettanto vaga percezione di stare perdendo la chiarezza del ragionamento, potenziali derive, queste, che stavano prendendo il largo dentro di me, e dovute, pensai, alla conclusione di un periodo durante il quale mi era parso di intravedere la possibilità di uno sviluppo positivo di una questione che aveva un che di propizio e che mi stava molto a cuore, da molti anni. Una speranza che, se la si potesse vedere svolgersi come un rotolo di stoffa arabescata su un piano orizzontale, fino ad un certo punto si è anche realizzata, se ne poteva quasi indovinare il disegno che andava formandosi, composto da quegli infiniti fili intrecciati, ma fu proprio quel punto, in cui i fili intessuti sembrava si stessero sfilacciando come se una mano anonima fosse intenta a reciderli, incerta ed esitante, che coincise con la conclusione di quel periodo. Fu in quel momento che pensai, ricordo, a quelle poche righe di Kafka, precedute e seguite da uno spazio bianco da qualche parte nei Quaderni in ottavo, in cui si legge che «da un certo punto in avanti non c’è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare», e realizzai che quel punto era proprio davanti a me, ma ancora non potevo oltrepassarlo, dovevo tornare indietro, oppure andare a Berlino, con la speranza che quel passaggio fosse solo rimandato. Furono proprio queste considerazioni, che prendevano piede in me durante il viaggio verso l’aeroporto e poi in aereo, il motivo per cui, pensai, tutto sommato partivo a cuor leggero e che a volte il futuro va lasciato a riposo, come si merita, poiché se lo svegliamo troppo presto, potrebbe trasformarsi in un presente malfermo, intontito e precario. Fu solo qualche giorno dopo, già a Berlino, che pensai a quanto di rado mi sono sentito così libero come durante quelle giornate passate a vagabondare per le strade di quella città che mi sembrava dopo tanti decenni ancora un cantiere e pensai che anch’io, proprio come lei, ero un cantiere e tutto in me era in costruzione, anche quel periodo che sembrava concluso lo era ed era anche, forse, il motivo di quel viaggio a Berlino. Il flusso dei pensieri che accompagnava il mio vagabondare si muoveva oscillando tra la sensazione della splendida libertà di movimento e l’orrore paralizzante che mi pervadeva di fronte alle tracce della distruzione che risaliva ad un lontano passato, ma erano due sensazioni che, compresi, si intrecciavano mescolandosi nell’idea di cantiere, ovvero Baustelle in tedesco, che sembra contenere al suo interno la parola «stelle» perciò decisi che per me avevano un significato augurale, se non addirittura siderale, e fu in quel preciso istante che pensai al fatto che potremmo essere gli angeli di noi stessi quando, pensai, camminando per ore di fronte ai palazzi, lungo i sentieri che si insinuano nei parchi, sui selciati delle grandi piazze, per i corridoi dei musei, di fronte ai monumenti e lungo i corsi d’acqua dove si riflettono le luci della città e del cielo ci vediamo come dall’alto, presi dalle nostre faccende quotidiane o, come in questo caso, dal vagabondare in un flusso che oscilla ora verso la libertà, ora verso l’orrore della distruzione. Ogni volta che parto per andare in qualche posto mi capitano coincidenze improbabili, incontri imprevisti, sogni incongrui in cui la realtà si spiega e a volte si preannuncia in un modo che mi fa pensare che sia tutto collegato ma che di solito rimane impercettibile e solo in queste situazioni, e a sprazzi, i collegamenti si illuminano come sinapsi, e allora è possibile vedere dove normalmente non si vede, è possibile vivere come normalmente non si vive, per non dire fare esperienze che di solito non si fanno, perché sarebbe riduttivo e un po’ televisivo. Pochi giorni prima di partire parlavo con F. di libri e viaggi. Mi aveva mandato da leggere un suo scritto, in cui non è lui F. il protagonista, ma il suo alter ego, Doppelgänger appunto, ad andare in un’isoletta disabitata dietro al Lido di Venezia per scrivere dei luoghi ideali per suicidarsi. Questa cosa mi viene in mente perché quella stessa sera ci si consigliava libri a vicenda e F. mi parlò di un libro di Bolaño che ancora non avevo letto, Puttane assassine. L’ho comprato alla stazione mentre andavo all’aeroporto. Ne ho letto metà, non è molto lungo, tra il viaggio in treno e l’attesa al gate. Il primo racconto era ambientato a Berlino, per l’appunto, dove il protagonista incontra un vecchio conoscente. Parlano di viaggi e coincidenze, tra le altre cose. Il protagonista non è Bolaño ma B., il suo alter ego. Mentre leggo, seduto su una poltroncina al gate, penso a F. e a Doppelgänger. Allora prendo il telefono e scrivo questo messaggio a F.: «J. è partito per Berlino. Stamani alla stazione ha comprato Puttane assassine ed è rimasto sorpreso quando ha letto che il primo racconto era ambientato proprio nella città dove era diretto, ci vedeva un senso, o forse confondeva senso e necessità, per usare un’espressione che aveva letto proprio in quel primo racconto. J. ha già letto quasi metà del libro e ora forse crede di capire da dove il suo amico F. ha preso il modo di descrivere le avventure di Doppelgänger. J., anche se non so se posso parlare per lui, è molto contento di tutto questo. Ci trova un senso, anche se non è necessario trovarlo, un senso. O almeno questo è ciò che credo stia provando mentre aspetta al gate dell’aeroporto.»
La seconda notte a Berlino ho dormito due ore, fu una notte balorda, passata con un gruppo di giovani poeti, incontrati per caso in un bar che conoscevo ma non sapevo che quella sera avrebbe ospitato un reading, e finita a casa di una giovane poetessa alle sette di mattina. La seconda notte, dicevo, o meglio quelle due ore mattutine dormite in casa della giovane poetessa, sogno di incontrare Bolaño, che era morto da quindici anni, in un bar di Berlino. «Ho visto che col tuo amico F., o dovrei dire Doppelgänger? vi divertite a farmi il verso» dice Bolaño. «Si, è un bel modo di divertirsi», dico io, o forse lo dice J. «Bene» dice Bolaño «ne sono contento».
Quando viaggio mi ricordo meglio i sogni, sono più nitidi.
Due giorni dopo, quasi alla fine del libro, leggo in un altro racconto di Puttane assassine che B. incontra in sogno un vecchio scrittore cileno morto molti anni prima e parlano di libri. O forse incontra lo scrittore nella realtà e parlano di sogni? Non me lo ricordo più ma mi pare di ricordare che nel sogno il vecchio scrittore dice a B. che la letteratura, del resto, non è che un sogno guidato, e mentre ci penso per un istante mi passa per la testa l’idea che sia tutto un sogno. Se è un sogno la cosa migliore è continuare a sognare, se invece era tutto letto in un libro allora continuare a leggere. Non si finisce mai di leggere, anche se i libri hanno termine, così come non si finisce mai di vivere, anche se la morte è un fatto certo, per usare un’altra espressione trovata nel libro di Bolaño, e forse per tutti questi motivi non si smette mai di sognare? Se invece era la vita vera allora continuare a vivere. Chissà, forse in questo mistero c’è la chiave dell’arte. Un mistero appunto. Oppure no e non siamo neanche gli angeli di noi stessi ma vorremmo solo vederci dall’alto, come Damiel e Cassiel che guardano dal cielo sopra Berlino, come se fossimo allo stesso tempo entrambi, Damien e Cassiel, uno vuole restare angelo e l’altro vuole farsi uomo, incarnarsi nella vita umana e arrivare a quel punto oltre il quale non c’è più modo di tornare indietro.
È quello il punto al quale si deve arrivare.
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