di Domenico Ippolito (essi vivono)
Il viaggio non fu lungo ma inutile. A mezzogiorno arrivai sul lungomare di Ahrenshoop e trovai la sua casa, un edificio bianco dall’imponente tetto di paglia, tipico da queste parti, ma il signor Schulz, un mio vecchio paziente, era morto da circa un’ora. Chissà perché mi avevano mandato a chiamare. Da quando, quattro anni prima, Schulz aveva lasciato Berlino per trasferirsi sulla costa baltica, non avevo più seguito l’evoluzione della sua malattia. Mi aveva telefonato solo una volta, durante l’ondata più aggressiva della pandemia, per un consulto sul dosaggio delle sue nuove medicine; poi, di nuovo, quella mattina. Non era stato lui, ma il domestico, un certo Jacques. Al capezzale di Schulz c’era sua sorella Helene, che abitava da quelle parti, e un altro uomo, alto, coi baffi, che non s’era mai tolto il cappello. Mi aveva a malapena rivolto un cenno quando ero entrato. Doveva essere lui Jacques. Avrei potuto chiedergli il perché di quella telefonata; invece, risposi solo al saluto e, dopo aver accettato un tè, lasciai la casa senza voltarmi indietro.
Avrei potuto riprendere la Autobahn 19 in senso opposto e arrivare a Berlino per cena. Ma era un sabato, in agenda non avevo appuntamenti, così restai. Affittai un appartamento tra la città e il mare, pagando in anticipo fino a lunedì, e corsi subito in spiaggia. La risacca, che rifluiva sulla battigia, mi aiutò a ricacciare il mio arrivo ad Ahrenshoop più indietro, nel luogo dell’oblio; così, mi parve di trovarmi lì da un tempo più lontano, indefinito. Mi tolsi i vestiti ed entrai in acqua in mutande. Sentii la pelle ritrarsi infreddolita. Sferzai le onde con le braccia e le gambe, per riscaldare i muscoli: funzionò. Nuotai a lungo, poi dormii sulla sabbia, sopra il piccolo asciugamano che mi ero portato.
Quella sera restai nell’appartamento, chino sulla scrivania, a completare un puzzle. L’immagine di un veliero. Qualche ora dopo mi accorsi che erano avanzati due tasselli, forse dei doppioni, oppure, dei pezzi appartenenti a un’altra scatola. Li tenni in mano e me li portai a letto, come se fossero domande. Che cosa ero venuto a fare lì? Perché avevo deciso di restare? Con quelle mi sarei addormentato e rimesso in piedi la mattina dopo.
Continuò così fino a domenica; tuttavia, la seconda sera non riuscii a dormire. Trascorsi le ore più buie della notte nel piccolo appartamento senza far nulla, osservando le tende scolorite del soggiorno, finché non decisi di scendere. Camminai fino al mare. L’acqua brillava per la presenza di alghe luminose. Era un fenomeno a cui avevo già assistito anni prima, ma che mi lasciò di nuovo una grande impressione. Quando mi avvicinai di più alla riva, qualcosa mi fece davvero sussultare: quelle luci, allineate le une con le altre, composero il volto abbacinante di una bambina, nella quale riconobbi mia sorella da piccola. E fu allora che mi tornò in mente un’altra sorella, quella di Schulz, Helene, la vecchia signora con cui mi ero trattenuto a bere il tè. Ricordai, finalmente, il motivo per cui ero rimasto: il funerale. Schulz sarebbe stato seppellito quel lunedì, di primo pomeriggio, e io avevo promesso a Helene di essere presente.
Tornai nell’appartamento come rigenerato. Era ormai mattina. Mi preparai una colazione abbondante, tuttavia, dopo aver mangiato, a causa della notte passata insonne e della ritrovata tranquillità, caddi in un sonno profondo. Mi svegliai dopo molte ore. Controllai l’orologio e, con un certo sgomento, mi accorsi che erano già le sedici. Frastornato dalla dormita e dall’eventualità di aver mancato la cerimonia, indossai ciò che trovai sulla sedia e mi precipitai al cimitero di Ahrenshoop in macchina. Una volta varcato il cancello d’entrata, mi accorsi che un piccolo drappello di persone, vestite di scuro, si dirigevano in senso opposto. Doveva essere appena terminato un funerale, ma non era quello di Schulz: Helene non c’era. Rimasi imbambolato a osservare quelle facce, senza saper più che fare, e, quasi come una risposta, la mano di un uomo mi afferrò per il braccio.
Jacques.
«Da questa parte, signore» disse, mostrandomi l’uscita.
Lo seguii, fingendo di capire. Nel parcheggio, Jacques indicò un’auto e m’invitò a salire. Obbedii. D’improvviso mi sentii esausto, come se il sedile dell’automobile mi avesse risucchiato le ultime energie.
«La riaccompagno a casa».
Non provai nemmeno a oppormi. «E la mia macchina?» gli chiesi con una debole smorfia.
«Ci penseremo dopo».
Annuii. Jacques guidò in direzione della costa. Guardavo dal finestrino il mare chiarissimo, di nuovo invaso da una luce alta, lontana, il sole estivo, finché non apparve la lunga ombra dell’imponente tetto di paglia di un’abitazione, dove eravamo diretti, a casa mia, la casa di Schulz.
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