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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Il Ciclone | Vent’anni di pieraccionismo

13 Settembre 2016 di Redazione

Il 12 Settembre 2016 in Piazza Santo Spirito a Firenze si sono festeggiati i vent’anni de Il Ciclone. In fuga dalla bocciofila ha deciso di recarsi sul luogo e raccontare la serata con un pezzo firmato a quattro mani.

Ore 19.30 – 20.30 Davanti alla fontana (Simone Lisi)

Scrivere dei vent’anni del Ciclone senza assumere un atteggiamento snob.
Qui, sulla bocciofila, il luogo più snob al mondo.
È questo che ho chiesto ai miei colleghi di blog per questa serata commemorativa. Di provare a non essere snob, solo questo. Fate come Emmanuel Carrère che scrive un reportage da Calais, ultima frontiera dei profughi che cercano di andare in Inghilterra, senza parlare dei profughi. Un esercizio di stile.
I miei colleghi allora mi hanno guardato e hanno detto:
Ah ah.
No.
Scordatelo.
Non esiste.
Quindi nei successivi brani faranno a pezzi questa serata, ed è qualcosa che ci può anche stare, ma quello che io farò sarà provare a salvare Il Ciclone. Non che il film abbia bisogno della mia assoluzione, visto che si salva benissimo da solo, ma fa niente, quello che ho deciso di fare è provare a spezzare delle lance.

La mia argomentazione potrebbe intitolarsi “I tre archetipi”

  • Il primo archetipo (prosperiano) per salvare Il Ciclone è Lorena Forteza. Questa prima difesa fa leva sulla donna angelo, stil-novistica, fantasmatica, straniera e quindi incomprensibile e per questo: sublime, perfetta, irraggiungibile. Lorena Forteza che balla sul tavolo e rivolge uno sguardo obliquo a Pieraccioni-Levante rappresenta in un certo senso il modello della donna come ideale a cui tendere, che è insuperabile e inattaccabile.
  • Il secondo archetipo (magrinico) per salvare Il Ciclone è l’estate. Il film, che originariamente esce poco prima di Natale polverizzando tutti i record d’incassi, è un film a tutti gli effetti estivo. Parla di un mondo dove la legge dell’anno e del lavoro è momentaneamente sospesa, fuori dal tempo capitalistico, seguendo un modello dionisiaco-marcusiano, dove il tempo è scandito dalle comete (la famosa Yakutake), dalla lentezza degli astri. L’estate come scandalo, come unica alternativa possibile, e Il Ciclone come affermazione di questo.
  • Il terzo archetipo (lisiano) è quello che coniuga il cinema con l’infanzia. Il cinema pieno, il cinema che “respira all’unisono”, il cinema che-non-esiste-più (il cinema dove lo vidi a Le Cure oggi è stato chiuso e sventrato per  farne dei micro-appartamenti). Il cinema popolare, l’esperienza autentica di essere non più un soggetto giudicante ma un tutt’uno, una sala che apprezza o non apprezza un film, un cinema stra-pieno (fascismo e comunismo che si toccano? ora non esageriamo), il cinema come esperienza a-critica, come lo, è in un certo senso, l’infanzia.

Detto questo, passiamo pure al massacro.

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20.30 – 21.30 Dal sagrato della chiesa (Giovanni Ceccanti)

La folla oceanica si scalda e si agita quando prende la parola Ceccherini. È un Ceccherini assurdamente sobrio quello che parla e bestemmia, quello che offende una tipa a caso — “zitta stronza” —, lo schiavo di vecchi rituali, la fata turchina. È mia sorella, dice, fra le risa generali. È in rehab, dicono. Ce l’ha fatta. Eppure ci prova, insiste ad essere lo sfasciato che ci si aspetta. Dice: e quando morirò cosa farete, ancora lì a ridere? A dire: tappami Levante, tappami? Perché morirò, lo sapete questo, morirò e ci sarà poco da ridere. Ridono tutti. Il Ciclone è uscito che c’era Prodi al governo e io avevo 9 anni e non sapevo legarmi le scarpe. Cecchi Gori ha pagato QUELLA canzone 100 milioni delle vecchie lire. Tara-taratta-tatta, tara-taratta-tatta… Vi prego, esponete il mio corpo alla SNAI quando sarò morto! Nessuno arretra, tutti ridono. È un Ceccherini in forma, tutto sommato. Pieraccioni dice: si gira un solo film, e non si sa di cosa parla. La folla si acquieta e mugugna. Ceccherini scherza col priore di Santo Spirito. Vien via leccahulo. Tutti guardiamo la chiesa e tratteniamo la pipì, in una crisi di panico generale, guardiamo l’immagine ripresa e proiettata sulla chiesa quindi le persone reali sul sagrato, incerti su cosa è meglio. Guardiamo noi stessi ripresi e proiettati di spalle. Meta meta, post post. Poi andiamo a letto svuotati, incerti che fosse la cosa giusta da fare — criticare il nazional-popolare — incerti che fosse sbagliato ridere ancora di quelle battute, tornare bambini (ancora una volta) giocare a calcio e cadere: perché i lacci, da soli, non si legheranno mai.

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21.30 – 22.30 Nella piazza gremita (Francesca Corpaci)

L’idea era passare a dare un’occhio, a guardare la gente in attesa dell’epifania di qualcuno almeno un po’ famoso, quelli che si dicono ma guarda, sono già passati vent’anni e proprio non l’avrei detto, quelli che nel novantasei non erano ancora nati e dunque non ci si spiega perché siano qui.

E invece mi trovo in mezzo all’attacco di panico più sontuoso della mia vita.

Prima che riesca a rendermene conto una folla pantagruelica, compatta come un muro di mattoni, invade la piazza e mi si chiude intorno impedendomi qualsiasi tipo di movimento. Non posso spostarmi, non posso andarmene, non posso mangiare, non posso andare a pisciare, non posso fare niente che non sia sedermi e aspettare. Aspettare cosa? Sono in trappola. Inizio a sudare, dietro di me qualcuno chiede se sto bene. Ma certo che sto bene! Non sto bene per un cazzo.

Il cellulare non prende, come a Capodanno, un tizio urla in un microfono e, pensando che vista l’occasione aspirare solo le occlusive sorde non sia abbastanza, inizia a boccheggiare su ogni singola consonante, producendo una serie di rantoli terrificanti. Morirò qui, lo so. Morirò di fame, mi scoppierà la vescica come a quell’astrologo danese, solo che lui almeno era a non so che banchetto e io invece sono in questa piazza che puzza di rancido, mi ritroveranno i barboni stanotte, razzolando tra le bottiglie semivuote. Verrò divorata da questo oceano di carne umana, di gente in diretta Facebook, vorrei raggiungere quei nuovi cessi a pagamento che hanno installato, che gli dai un euro e ti consegnano carta igienica profumata alla lavanda e ti dicono benvenuta e arrivederla, quei nuovi cessi sono la mia Mecca e sono irraggiungibili, guardo l’insegna che risplende nella notte, lontanissima. Devo alzarmi ma non posso, se solo ci provassi i balilla del servizio d’ordine sguinzaglierebbero i leoni. Posso solo rimanere immobile, sudare, tremare, e mentre soffoco ripetermi ma perché ho fatto sta cazzata, perché?

Ma poi qualcuno fa il nome di Monicelli e allora mi aggrappo a un’immagine salvifica, profumata. Quella di un futuro lucente in cui Leonardo Pieraccioni, sulle orme del suo mentore, decide di porre fine alle sue fatiche terrene facendosi intossicare a morte col ramato da Ceccherini. Se mi stringo forte a questo pensiero felice, forse riuscirò a volare. Volare, volare, volare, fino all’isola fantastica dei cessi che non ci sono.

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22.30 – 23.30 Da qualche parte in Oltrarno (Ferruccio Mazzanti)

Meno male che esiste Tom Waits. Parto con la mia macchinina per andare a vedere quella merda del Ciclone e passo la serata a cercare parcheggio. Ci sarà una interminabile coda in tutto l’Oltrarno, e non intendo solo automobili, no, intendo moto, motorini, biciclette e persone che cercano di parcheggiare il proprio derelitto corpo in un qualche angolo disperato di orrore cittadino. Ci saranno automobili sbattute contro alberi, motorini a due chilometri all’ora dentro a vetrine di negozi per turisti, biciclette gettate in Arno, cadaveri ammonticchiati accanto ai cassonetti della spazzatura, mentre i cani ci pisciano sopra: che le loro anime possano godersi Pieraccioni! È che Firenze offre così tante opportunità di intrattenimento, che appena si organizza un evento ridicolo per un film ridicolo (che sì certo fa ridere e gli voglio molto bene), allora la città impazzisce. E il comune è talmente tanto abile e geniale nella gestione di questa città, che riesce a rendere una zona come San Frediano inaccessibile perfino per chi deve solo tornare a casa: grandi, ma proprio grandi! Comunque vorrei sottolineare che l’evento è stato alquanto piacevole: 55 minuti in automobile per scoprire che ogni cittadino ha tutto il diritto di perdere la testa in mezzo al traffico esattamente come ho fatto io: ho maledetto il Signore e Nardella e tutti i Vigili Urbani che fanno le multe solo quando i parcheggi sono vuoti. Meno male che c’è Tom Waits, che alla radio canta:
Oh you got to
Hold on, hold on
You got to hold on
Take my hand, I’m standing right here, you got to
Just hold on.

http://www.infugadallabocciofila.it/wp-content/uploads/2016/09/VID-20160913-WA0003.mp4

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