di Andrea Caciagli
L’estate è una sofferenza. Il lavoro è una sofferenza. Lavorare d’estate è una sofferenza doppia. Le città si svestono e tu sei sempre in abiti da lavoro – giacca e cravatta, guanti e tuta, cuffie e portatile non fa differenza – in attesa di quella settimana o due di ferie da passare a mollo nell’acqua o al fresco in montagna. Nel frattempo, gli unici bagni che ti fai sono di sudore, soprattutto se lavori su un set cinematografico, dove se si gira all’aperto ci sono cinquanta gradi e se si gira al chiuso uguale, perché tra le luci di scena e le porte chiuse per il fonico in un batter d’occhio tutte le stanze diventano forni a microonde (per la felicità dei truccatori che sono costretti a ritoccare i volti degli attori ogni sei secondi). Immaginatevi poi a girare per la campagna toscana dentro a una vecchia Fiat: neanche il tempo di un ciak e la carovana di auto si deve fermare per rendere presentabile il volto di Leonardo Pieraccioni, che cerca di sopravvivere in una scatoletta di metallo incandescente con il solo ausilio di un ventilatorino dei cinesi.
Siamo ad Arezzo, all’Hotel Minerva, dove vent’anni fa mi dicono dormì la troupe del Ciclone. Si gira Se son rose, il nuovo film di Pieraccioni, e dopo due settimane a Prato e quattro tra Borgo e Scarperia siamo qui per gli ultimi giorni di riprese. Dovunque ci spostiamo si fermano folle di ammiratori che assaltano il set in cerca di una foto con lui. Alcuni ci seguono da un mese e ormai la troupe li conosce per fama – il matto, la pittrice, la donna-col-cane (sembrano carte dei Tarocchi, lo so, ma sono persone vere) – e gironzolano intorno a noi in cerca dell’ennesimo selfie con Pieraccioni, quasi volessero testimoniare, con quelle foto scattate un giorno dopo l’altro, il suo quotidiano invecchiamento. Ci sono tante ragazze, troppe. Ammiratrici, comparse, controfigure. L’estate sveste anche loro e vederle in massa è una sofferenza peggiore del caldo: more, bionde, lisce, ricce, con la coda, vestiti colorati, camicette, shorts, top, gonne a pois. E tutte, dico tutte, a un certo punto se ne escono con una battuta del Ciclone.
Con quella bicicletta e quel motorino scassato, Pieraccioni s’è impresso a fuoco nella cultura popolare (oltre che nel muro del casolare di famiglia) perché ha messo in scena se stesso con incredibile naturalezza, e continua a farlo oggi, dentro e fuori dal set. Lo fa quando giriamo al Tennis Club di Prato, con Carlo Conti sugli spalti per una comparsata, e lui lo chiama col megafono “Lì in mezzo, apritevi! Lasciate spazio a quel signore abbronzato!” o quando in notturna, in un dialogo a due lungo e impegnativo in cui a un certo punto deve tirare una pallina di carta in un cestino, fa un canestro a sorpresa e interrompe le riprese a metà urlando un “Te l’avevo detto!” diretto dell’attrezzista di scena, che aveva scommesso che non ce l’avrebbe mai fatta. È un grullo toscano, e per questo la gente gli vuole bene. E infatti ogni giorno selfie e foto e sorrisi e gonne corte, e l’errore di fare amicizia con il collega-bello, quel fenotipo che mentre tu devi parlare con una per mezza giornata per cercare di strapparle il numero, a lui basta presentarsi e in cinque minuti è lei a darglielo. “Chiamami”, gli dice. E il collega-bello, ovviamente, non la chiama mai.
Siamo ad Arezzo, all’Hotel Minerva, e per cena decidiamo di prendere le biciclette e farci un giro per il centro della città. Mangiamo, beviamo e finiamo in Piazza Grande con un po’ di rape indiane. In bicicletta come Pieraccioni quando sfonda il motorino, come Benigni che proprio in questa piazza girò La vita è bella. Ci sono un cesenaticense, un’imolese, un milanese e una borghigiana, e non è una barzelletta ma il cinema, che mette insieme famiglie e poi le spezza, a fine riprese. Poche amicizie resistono fuori dal set, e ritornano solo lì e dopo anni, senza più ritrovare quell’intimità che le aveva unite la prima volta. “Nel cinema ci si dimentica”, dice uno di loro. È vero. Ci si vuole tanto bene per due mesi ma poi niente, nel cinema restano solo i film, quelle immagini e quei suoni che in qualche modo ci raccontano, quelle battute che ancora si continuano a citare.
“Piripì! Piripì!”, “Dos los ramatos”, “Che ce l’hai un gratt’e vinci, te?”. Son vent’anni dal Ciclone e ancora si sentono questi ritornelli, per le strade di Firenze e della Toscana. Ma io, più che una lesbica col caschetto o un matto di paese, mi sento Ceccherini nella bara. Mentre il sole riscalda i corpi e le ragazze passano per strada con le loro gonne a fiori e i vestiti leggeri io son qui che lavoro con un motivetto che mi gira in testa, popolare e poetico a un tempo: “Voglio morire. Se quest’estate non ne trombo neanche una, voglio morire. E siccome so già che non ne tromberò neanche una… tappami Levante! Tappami, se tu mi vò bene!”. Ma come facevano, prima del Ciclone, a dar voce a questa sofferenza? Quante frasi servivano? Bisogna ringraziarlo, alla fine, Pieraccioni, perché ha condensato tutto in due parole. Adesso basta guardarsi negli occhi e dire “Tappami Levante!”.
Siamo ad Arezzo, all’Hotel Minerva, si preparano i bagagli per tornare a casa. Si chiudono le scatole, si caricano i materiali rimasti, si fa un’ultima doccia in una camera ancora da pulire. I camion tornano verso Roma, partono i pulmini e le auto, i più fortunati sono già diretti in vacanza. Dietro alla troupe che se ne va resta soltanto un assolato silenzio di fine luglio, una piazza vuota, perché il film quand’arriva passa, piglia e porta via, e a te un ti rimane altro che restare lì bono bono a capire che forse, se non fosse passato, sarebbe stato parecchio ma parecchio peggio. Almeno, adesso che il lavoro sul set è finito, senza il collega-bello forse c’è qualche speranza. L’estate è ancora lunga, vado a dare un po’ di ramato.
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