Gdańsk
Ogni volta è la luce – diversa, sciolta in un estenuante tempo anseatico – che mi stupisce. Come se il sole fosse più basso, pronto a mollare. Mi sembra che ci chieda di meno, il sole del nord, che basti resistere senza dover proporre nulla.
Cammino lungo il porto e i canali finché la città vecchia mi appare intera e bellissima. Danzica è uno scrigno pieno di dolci nauseabondi, vermi che si agitano, inondata da una luce d’oro e bellissimi intagli che si fingono antichi. Tutto è stato ricostruito, palmo a palmo, e non è ancora finita. Finisce mai la ricostruzione, dopo una guerra? O, come noi, continua ogni giorno poiché la vera catastrofe, l’apocalisse, è già avvenuta molto, molto tempo fa, prima che nascessimo, e tutto quello che possiamo fare è ricostruire fino a trovarci in un mondo diverso, che non ha nulla a che fare con quello che ci lasciamo alle spalle? Lavoriamo all’eterna creazione del mondo e la chiamiamo “ricostruzione”: Danzica è così.
Tutti assomigliano a mio nonno, o almeno mi sembra. Fronte alta, naso forte e spigoloso, occhi tristi e chiari, un silenzio in bocca. Tutti assomigliano anche a me, mi scambiano per Polacco e parlano, parlano, e mi si spezza il cuore a confessargli che no, non parlo polacco, non sono cresciuto qui, che mio nonno è invecchiato in Italia perchè gli avete ucciso tutta la famiglia, i tedeschi certo, ma in parte anche voi. Sarebbe rimasto, altrimenti? Sembrate così innocenti con le buste della spesa, uguali a ogni altro posto.
Tutto qua, dunque: ricostruire per dimenticare, per essere felici. Siete felici? Ne è valsa la pena?
Warszawa
Warsciàva con quel suono “sc” che mi ricorda la pronuncia strascicata e lenta di nonno. Nella piazza vecchia, ricostruita, tutta la Polonia è una ricostruzione, c’è una rock band cristiana. Hanno magliette con scritto: dio è buono. Allora scappo in un ristorante vegano, al piano terra di un palazzo qualsiasi in aleja Solidarnosci. Mi siedo e aspetto le frittelle d’avena. Accanto a me arriva una donna bionda, sulla cinquantina, registra terribili vocali uno dietro l’altro mentre io leggo un libro. Mi accorgo con la coda dell’occhio che anche lei ha un libro sul tavolo e non riesco a trattenermi dal provare a capire cosa si legge a Varsavia.
Il libro è bianco con un quadratino rosso, un’edizione Einaudi Scuola di metà anni ‘90: Gianni Rodari, C’era due volte il barone Lamberto. Eppure la signora parla polacco.
«Non siamo molti a leggere Gianni Rodari a Varsavia» dico sorridendo e indico il libro.
Lei risponde con un italiano elegantissimo, pieno di avverbi e aggettivi. Ha vissuto a Milano come insegnante, ma poi è arrivata la pandemia: «Tutto ha fatto un altro giro di giostra». Accompagna le parole con un gesto della mano e un sorriso malinconico standard che ho imparato ad associare alla nostalgia, qui.
«Cosa ci fa a Varsavia?» mi chiede.
E io rispondo che sono un turista, uno di quelli che sta rovinando il paese, e ridiamo. Poi mi dispiace perché, sì, sono un turista, ma non è tutta la storia. E quale sarebbe la storia? Che sono venuto in Polonia a cercare mio nonno prima che invecchiasse e diventasse mio nonno? A scoprire cosa esattamente? Ho diritto di curiosare, riesumare date e nomi che nascondono dolore? E, a distanza di così tanti anni, cosa rimane della vita di qualcuno quando un mondo intero è stato raso al suolo? Rimango in silenzio un attimo di troppo e aggiungo:
«Mio nonno è nato a Lublino».
Ci guardiamo e le racconto che era già lontano quando arrivarono i tedeschi, che aveva vissuto una vita lunga in Italia, che era un medico, si era sposato, aveva avuto quattro figli e aveva visto i propri nipoti. Non le dico invece dei pomeriggi in cui lo sentivo sospirare: “Mein got” nel silenzio della casa, degli occhi vuoti e spenti, della memoria che si perde, delle parole in italiano che non arrivano più, degli ultimi giorni in cui parlava solo tedesco (o forse yiddish, non lo saprò mai) e nessuno, neanche i suoi figli, riusciva più a capirlo.
Mi guarda in silenzio e posa il bicchiere sul tavolo.
«E sa dove abitava a Lublino?»
No, nessuno lo sa. La versione della propria vita che aveva condiviso era vaga, una mitologia messa in piedi perché non avere nulla sarebbe stato ancora più strano. In Italia si era convertito, si era sposato in chiesa, parlava solo italiano. La Polonia era un dato anagrafico ingombrante e sconosciuto di cui non c’era molto da dire. Mi chiedo come sia stato per mia mamma crescere così, con alle spalle un vuoto di cui non si può e non si deve chiedere nulla.
«Un’amica sta facendo un dottorato sulle comunità ebraiche del sud della Polonia. Se vuole, possiamo provare a chiedere a lei» e prima di finire la frase, senza lasciarmi il tempo di dire che non era necessario, che questo viaggio era già complicato così, prende il telefono e inizia a parlare e io riconosco solo il nome di mio nonno (pronunciato in un modo così diverso da quello a cui ero abituato) e “Lublin” e le parole per “grazie” e per “ciao”.
«Mi lasci il numero di telefono, se trova qualcosa, la avviso».
La mattina dopo, appena sveglio, lampeggiano alcuni messaggi sul cellulare. Mio zio non era pazzo quando diceva che a Lublino nonno abitava in Via Verdi.
«Cosa c’entra via Verdi a Lublino?» chiedeva mia mamma e lui non sapeva rispondere: mio nonno abitava in ulica Zielona, via Verde.
Lublin
La casa non è diversa dalle immagini che ho visto sul telefono. Una stradina secondaria, senza pretese, oggi come quando mio nonno ci passava da bambino. L’ho sempre chiamato nonno Enrico, ma quando morì scoprii che si chiamava in realtà Chaim. Non credo di aver saputo che fosse – o almeno fosse stato – ebreo. Si era sposato con mia nonna Carla, parlava italiano, non era religioso, come tutti noi, non aveva niente di diverso dall’altro nonno che guardava sempre un po’ dall’alto in basso. Lui medico, l’altro falegname. Chaim Dancygier è nato a Lublino il 1 maggio 1907 ed ha abitato in via Zielona, n. 5, dove sono adesso.
Vorrei poter dire che è successo qualcosa, che mi sento a casa, ma non è successo nulla. Immagino mio nonno come un bambino che scorrazza, quando il mondo non aveva ancora conosciuto la seconda guerra mondiale, a Lublino un terzo della popolazione era ebraica e sulla città svettava una sinagoga da 3.000 posti.
Tutto il quartiere ebraico non esiste più: raso al suolo durante la guerra. E così capisco una cosa piccola, per tanta strada fatta. Che non parla della famiglia di mio nonno, ma di me e di mia mamma. Del nostro modo inconfondibile di non dire, di tralasciare, della capacità affinata in una vita intera di non concentrarsi sul dolore, di lasciarlo in ombra. Ho capito perché mio nonno non è mai voluto tornare, anche quando sarebbe stato possibile. Tornare dove?
Seduto su una panchina di Lublino, una pace rabbiosa, irragionevole, mi cresce in bocca. Tutto intorno c’è una città verde, piena di coppie e famiglie. E io li guardo di traverso cercando di capire se i loro nonni abbiano preso parte ai pogrom spontanei, seguiti alla sconfitta nazista. Se i loro nonni abbiano chiuso gli occhi sospirando: «finalmente, non se ne poteva più di questi ebrei».
Una foto in bianco e nero ha sullo sfondo una nave e un gruppo sorridente in primo piano: riconosco mia nonna che tiene in braccio mia mamma, giovanissima. La nave è a Bari e sta viaggiando verso Israele. Il fratello di mio nonno ha deciso che l’Europa non lo fregherà mai più. Mentre sto seduto, Israele bombarda due milioni di palestinesi a cui ha tagliato acqua ed elettricità da quasi un mese. L’Europa da cui cercavano di scappare se la sono portata addosso.
Cracovia
Sono in un tram che gira intorno alla città vecchia stridendo ad ogni curva. Siamo praticamente solo turisti. La piazza è immensa, circondata da un colonnato che potrebbe essere piazza Santissima Annunziata a Firenze. Sale una famiglia polacca: mamma, nonna e due bambini. Non credo che siano di Cracovia, si guardano intorno spauriti cercando di decifrare le linee, aprono e chiudono una mappa della città. Alzando gli occhi, scartano gli americani, che sono riconoscibili ovunque, gli inglesi che cercano di mimetizzarsi, e mi vedono. Io faccio finta di niente. La mamma abbandona gli altri e si dirige verso di me, mi chiede evidentemente di aiutarla a capire se quello sia il tram giusto. Ci guardiamo per un lunghissimo momento e mi sembra che il passato mi osservi da dietro il finestrino: appoggio una mano aperta e per un attimo ho l’impressione di toccarlo, che il vetro si assottigli fino a evaporare.
«I’m sorry, I don’t speak Polish» le dico triste, scandendo bene le parole.
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