La storia di una caccia al leone è molto diversa a seconda di chi la racconta: il cacciatore o il leone. Così, allo stesso modo, molto diverse sarebbero le classifiche di fine anno della bocciofila se a raccontarle fossero i bocciofili ora rinchiusi nelle segrete del Palazzo del Cinema della Bocciofila, luogo allegro e sereno per gran parte dell’anno, in cui regnano l’amicizia e la condivisione quasi sempre: ma non quando è ora di Classifica.
Negli anni, le varie fazioni hanno provato ad abolirla (nel 2017: “Quindi per farla breve quest’anno e forse mai più niente classifica.”), rafforzarla (nel 2018: “qualsiasi cosa facciate, qualsiasi modalità adottiate, alla fine l’unica cosa che cambia veramente è se siete indiscutibilmente d’accordo o no con questa classifica.”), criticarla (nel 2019: “vi dimostreranno che ci sono state compravendite di voti, e ripescaggi dell’ultimo secondo e proposte bocciate per sconfitte ai dadi”), ma la classifica è più grande di tutti noi e continua a esistere serafica, incurante, come un uroboro senza inizio né fine.
Chi, dunque, è il vero autore della classifica? I redattori della bocciofila? Un ipotetico bocciofilo medio, frutto degli inevitabili compromessi fra i gusti di tutti? La bocciofila stessa, entità disincarnata e suprema, che tutti ci contiene a nostra insaputa?
La verità è che la classifica non ha autore: sta, semplicemente. La vera classifica, di cui questa classifica non è che un pallido riflesso, è eterna e contiene i dieci film più belli di ogni anno e di tutti gli anni del tempo – ci auguriamo infinito – in cui il cinema esisterà.
Come vedete, il 2021 è stato un anno complesso e su alcuni di noi ha avuto ricadute mistiche importanti. Ma questi dieci film sono stati quelli che l’hanno reso almeno sopportabile. E, non potendo venire a casa di ognuno di voi a portarvi un panettone, ve li regaliamo nel caso ve li siate persi.
Buone visioni e buon anno!
La Bocciofila
10 . Annette, Leos Carax
Quando sono sotto la doccia canto. Quando non sono sotto la doccia canto. Canto anche quando vado a fare la spesa. Canto anche quando metto il cibo che ho comprato a posto, in frigo o nella dispensa, nei cassetti o nella fruttiera. Quando mi innamoro canto, quando litigo pure. Se sono in macchina cosa faccio secondo voi? Ve lo dico io cosa faccio: canto, canto e canto. E se sono sveglio? Canto. Invece se sto dormendo? Ah ah ah ah: sogno di cantare. A dire il vero canto sempre, ma devo confessarvi – non siate tristi miei uccellini appollaiati sui rami ad ascoltare – che ci sono alcuni momenti in cui non canto. Volete un esempio? Volete che vi confidi una volta in cui muto sono stato, muto. Ecco, ve lo dico, giuro che ve lo dico: quando ho visto Annette di Carax.
9 . Diários de Otsoga, Miguel Gomes e Maureen Fazendeiro
Sulla poltrona in velluto ocra di una sala d’essai, il maestro del cinema portoghese chiude gli occhi solo per un attimo e adesso sta sognando.
Nel sogno è impegnato alla realizzazione del suo capolavoro: un film in grado di far addormentare qualsiasi spettatore. Non si tratta tuttavia di un film noioso; solo, è dotato di meccanismi così oscuri, di una narrazione a tal punto rarefatta e di nessi tanto misteriosi che chiunque vi si trovi di fronte, per quanto possa sforzarsi di comprenderlo, finirà per perdercisi letteralmente dentro – si potrebbe dire soccombervi, ma non in senso violento o spiacevole; sarà quasi un abbandonarsi, un gocciolare via.
Mentre le immagini scorreranno sullo schermo si avranno cinema interi pieni di gente addormentata, composta nel posto assegnato o buttata sullo spettatore accanto. Sarà solo a quel punto, quando tutte le palpebre saranno abbassate, che il maestro del cinema portoghese potrà proiettare il suo vero capolavoro: all’interno dei loro sogni.
8 . Undine, Christian Petzold
Berlino: una città fondata sulle paludi, su acque invisibili dove nuotano ninfe chiamate undine. Una città con una storia di distruzioni e ricostruzioni, di stratificazione architettonica, di vuoti colmati da nuovi pieni.
Un antico mito di morte e di rinascita che dà forma ai personaggi di un melodramma: il cuore di una ninfa, rianimata e resa mortale, finisce anch’esso esposto alle continue lacerazioni dei sentimenti, al susseguirsi di slanci emotivi e ferite profonde, alla stratificazione delle cicatrici. Neppure l’amore si sottrae al fluire del tempo e delle acque.
7 . Un altro giro, Thomas Vinterberg
Alla soglia dei trent’anni, la leggerezza del decennio che ci si mette alle spalle sbiadisce in un ricordo che lascia intatti pochi flashback dalle cornici epiche. Questi assumono i contorni della leggenda, se rapportati al periodo torbido d’istinti moribondi, per dirla con Gozzano, che si vive.
Alla soglia dei trent’anni, i fondamentali della vita, che le responsabilità necessarie a costruire il proprio posizionamento sociale reprimono, cedono il passo alla produttività, tra nevrosi e decadenza psico-fisica.
Alla soglia dei trent’anni, un film come quello di Thomas Vinterberg può dunque apparire come una liberatoria ma problematica lode all’alcolismo. Ma la joie de vivre che il protagonista, Martin (Mads Mikkelsen), sprigiona nel ballo finale al porto, è qualcosa che ci libera e assolve da questo imbarazzo.
Martin rompe le maglie della parabola ascendente e performativa dentro cui, alla soglia dei trent’anni, ci troviamo imbrigliati, liberandosi così di quella latente depressione che si annida nell’inconscio, repressa sotto strati di sensi di colpa e un fisico non più in grado di generare ricordi epici e leggendari.
6 . Petite Maman, Céline Sciamma
Ho ricevuto un messaggio audio di mia madre in cui mi diceva che in quel momento era a Roma, perché il suo compagno Biagio Power doveva ritirare da un tizio conosciuto su internet un giradischi. Io sapevo già tutto, di Roma, del giradischi, perché me lo aveva raccontato quasi con quelle stesse parole a una cena recente, ma il suo messaggio audio, di lei in una piazza romana che attende che avvenga lo scambio, “Roma è pazzesca” diceva “è pazzesca”, questa sua visione della città o meglio non-visione, la sensazione fisica della dismisura che la circonda, me la rendeva più cara ancora.
Le ho risposto di stare attenta e non allontanarsi troppo dalla macchina.
5 . Il potere del cane, Jane Campion
Per realizzare un fiore di carta occorrono: fogli di giornale, colla a caldo, bottoni, forbici.
Comporre una corona di petali tagliando da una striscia di giornale tante piccole linguette (di circa due centimetri, lunghe due terzi del foglio). Arrotolare la striscia su se stessa e mettere insieme altre corone a seconda di quanto si vuole folto il fiore. Una volta ultimati i petali, incollare il bottone al centro della composizione.
Ho messo all’occhiello il mio fiore di carta e ho aspettato. Non si è nemmeno seduto, Sei il solito signorino, ha detto, beviti un whiskey e levati quel coso.
Quel coso.
“Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”.
– E tu da cosa vuoi essere salvato?
– Non ho bisogno di essere salvato.
– Tutti abbiamo un boia che ci sussurra all’orecchio.
– Al mio ho regalato una corda per impiccarsi.
4 . Il re granchio, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis
Sto seduto sotto una quercia, sul tronco intravedo parti di vite che gli si sono svolte accanto. Un uomo ubriaco, un pastore cardiopatico, un cacciatore che zoppica, una giovane donna che si sistema la camicia… Sarei curioso di sapere quali storie abbiano raccontato ai due registi di Re Granchio – Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi – quando erano bambini perché tirassero fuori un film simile, ma in ogni caso posso dire che sono stato due ore con gli occhi e le orecchie spalancate, proprio come facevo quando ero piccolo.
3 . First Cow, Kelly Reichardt
Questa fangosa ballata, la cui trama potremmo ridurre a “frittelle e avidità nell’America di frontiera” e la cui scena clou vede il protagonista Otis Figowitz detto Cookie preparare un clafoutis con una frusta di legno, deve la sua grandezza sinfonica all’amore della regista Kelly Reichardt per lo sfondo, per ciò che accade fuori scena. Il sottobosco, le suppellettili, i soprabiti in vimini, un cane in canoa, un tritone gambe all’aria, quindi i personaggi secondari su cui la camera si ferma sempre un momento di più: vi si scorgeranno Stephen Malkmus dei Pavement che suona il violino (intervallando la bellissima musica di William Tyler) o un vecchio col corvo sulla spalla, quel René Auberjonois già attore ne “I compari” di Altman, altro regista che portava lo sfondo in primo piano. A ben vedere, lo stesso Cookie e il suo compagno King-Lu sono di sfondo a qualcos’altro, e l’unico vero avvenimento del film è fuori dal film, è già accaduto, non accadrà mai.
2 . Sesso sfortunato o follie porno, Radu Jude
Del regista rumeno Radu Jude, è uscito in Italia quando le sale cinematografiche hanno riaperto i battenti, come un fiore strano e coloratissimo che spunta in mezzo a un prato in primavera, come una
detonazione che ha spazzato via lo spesso strato di polvere che si era andato a creare sulle poltroncine in quei mesi di pausa forzata e odiata.
Nei primi minuti del film una stimata professoressa, che per l’occasione indossa una parrucca rossa un po’ buffa, si filma mentre fa sesso con suo marito. Bell’amplesso certo, ma si è quasi sollevati alla fine perché è tutto troppo intimo perché non ci si senta di troppo ad assistere. Quella scena però diventa virale e si è costretti a vederla ancora e ancora nel corso del film – dove non dovrebbe essere – commentata da chi non dovrebbe commentarla, usata come arma contro la sua autrice, il tutto in modo troppo ridicolo e violento per non somigliare alla realtà. Nel secondo capitolo del film, che è un indagine sul linguaggio e il senso o meglio la perdita di senso, si legge: “Lo schermo, come lo scudo di Perseo, ci permette di sostenere la vista di una realtà che, se non fosse riflessa, ci travolgerebbe”. Infatti Jude rincara la dose e mette mascherine a tutti i personaggi, svolgendo il film nella Bucarest della pandemia. Forse vuole dirci che non stiamo migliorando per niente? Se sì, lo fa nel modo più camp, pazzo, intelligente, istruttivo, e giusto possibile. Lo pensiamo in bocciofila e lo pensano al Festival di Berlino, dove gli è stato assegnato il premio per il miglior film.
1 . Drive my car, Ryûsuke Hamaguchi
Come fare i conti col lutto, con i traumi dell’esistenza che ci lasciano storditi, paralizzati, incapaci di espressione? Siamo personaggi di un dramma che parlano ognuno la propria lingua, siamo cumuli di rimpianti, vite non vissute. Aggrappati ai ricordi, alle voci che sono insieme un appiglio e una prigione.
Eppure adesso siamo sulla stessa auto, tu e io. Eppure bisogna vivere. Cercheremo in questa complicità silenziosa una scintilla, uno sguardo comune, una lingua universale. Ricostruiremo le nostre identità disastrate a partire da questo dolore condiviso. Come due passeggeri impegnati nello stesso stesso viaggio. Come un padre e una figlia.
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