di Daniele Montorsi
“Potremmo scopare”.
Il mio corpo compatto e basso; le mie mani da uccellino; tutto di me divenne immenso sotto la coltre di quelle parole. Un seme di Dente di Leone planò leggero sulla mia spalla. Un piccolo sciame bianco viaggiava poco distante, solitario e compatto a mezz’aria. Lo scacciai immediatamente, facendolo sparire tra i traffici collettivi di quella specie di sagra post apocalittica che dilagava nelle strade.
Marcos cercava di conciliare quel gesto con le mie parole, quasi le avessi appena disintegrate.
Pareva improvvisamente piccolo dentro i colori della squadra del suo quartiere.
Mi sentivo come quando andavo in piscina, nella zona comune per asciugarsi i capelli; incassata tra specchi che si fronteggiavano, in cui vedevo moltiplicare il modo aggressivo con cui soppesavo corpi pieni di nudità appena tenuta a freno.
Rispose con un “Vieni”, mentre per uno strano senso del pudore si infilava la maglietta della squadra nei pantaloncini. Un ricomporsi infantile, il ricordo delle raccomandazioni della madre, dentro quel velo così facile da togliere.
Ci spogliammo e ci mordemmo come cani contro la porta chiusa della sua camera d’albergo, riempita dall’aria condizionata ancora accesa. Marcos si abbassò i pantaloncini a metà, poi cominciò ad armeggiare con i miei, spogliandomi a strattoni. Io gli abbassavo completamente le mutande e glielo prendevo in mano, interrompendo ogni suo gesto. Glielo stringevo e quasi dovevo far attenzione a non esagerare – un lieve gemito dell’uomo, che non seppi come interpretare, mi fece rallentare il passo.
La peluria dell’inguine era scura. Anche la vena che solcava il suo cazzo imbronciato lo era. Scuro il fondo della bocca che vedevo e volevo far torcere a dismisura con la mia mano tra le sue cosce.
Quando afferrai la nuca di Marcos, l’uomo ebbe una specie di riflesso e si aggrappò al mio braccio teso. Ci fu un’interferenza, planata leggera come il Dente di Leone: il fantasma dell’uomo del campeggio che mi aveva afferrato per un braccio a sedici anni. Rimasi concentrata sulla mia morsa, dialogando col disordine di quel contatto, muggendogli contro; concentrata a tal punto che Marcos sussurrò un invito ad allentarla. Ritrovai l’uomo che avevo davanti ed era, sì, estremamente fragile nelle mie mani: decisi di rassicurarlo abbassando con forza cinque dita sui miei pantaloncini, che cominciarono a scivolare via. Presi di nuovo in mano il pene dell’uomo, più teso e grosso di prima, come a dominarlo, poi la mia mano dietro la sua nuca gli tirò la testa indietro: l’uomo era sorprendentemente docile e si faceva tirare e attirare fin verso il tavolo. Gli ho serrato la mascella con la mano e gli ho avvicinato la testa alla mia, e prima gli guardavo la bocca e ricevevo il soffio del suo respiro, poi guardavo in basso e glielo spingevo dentro e anche lui abbassava lo sguardo, guardandosi sparire dentro di me. Era aggrappato al seno e sprigionava tutti gli odori che avevo già sentito sugli spalti durante la sua partita, incapsulato nel sudore stantio che striava l’uomo.
Cibo. Forse salse dolciastre. E qualcos’altro di inqualificabile ma terribilmente capace di tenermi attaccata a quel corpo. Nascosi il mio viso sulla spalla dell’uomo per non farmi vedere e lì formai un urlo silenzioso che non riuscivo a capire, mescolato a lampi neri che non facevano parte di ciò che qualcuno dovrebbe sentire scopando. Un altro urlo ancora e cominciai ad affondare la mia faccia in ogni mio organo, tessuto, cellula e li vedevo vivere una vita diversa, collegarsi in modo nuovo; e la loro vita mi accecava ed erano un coro, laddove mi ero sempre sentita voce singola. Un urlo, il mio, per non stare al di sotto di quella superficie; non doloroso, non liberatorio, ma di esistenza. Lui mi tenne ferma contro il tavolo, coi pollici che mi scavavano i fianchi ed emise una vocale profonda, propagata dagli schizzi furiosi sulla mia pancia e sulle cosce. Lo riportai a me per farmi penetrare da quell’uomo che si era appena svuotato del suo canto e spinsi la mia testa con forza contro il suo petto. Ero pronta a frantumarmi il cranio e Marcos quasi tentava di tenermi indietro la testa, per non farsi scavare un buco nel petto.
Poi nessuna spinta; poi di nuovo la calma e la lava della calda continuità che sentivo tra i nostri corpi.
Un Dente di Leone riceveva il permesso di entrare dalla finestra e si posava sul dorso della mia mano, per riprendere la nostra conversazione interrotta.
Il latte con riflessi grigiastri che scivolava lungo le mie cosce e quel granello dalla struttura soffice.
Il livido sulla mia tetta e quell’uomo crollato sul letto, ancora con le mutande abbassate.
Il respiro che nessuno dei due emetteva, di modo da allontanare tempo e doveri.
La pelle lucida del suo glande, una noce di carne.
Un altro Dente di Leone entrò a fare la sua parte, unico movimento nel silenzio sudato. Mi ignorò del tutto e scese proprio sul suo pene, ormai sempre più nascosto.
Ho cercato di illudere quel piccolo seme; fargli credere in una nostra prossimità vegetale. Doveva rimanere con me, lì, a esibire la sua immobilità di piccolo fantasma; coltivare con me la quieta disintegrazione che solo fottere mi dà.
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