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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Guida romantica a posti perduti | Da ragazzi andavamo al mare a mezzogiorno

7 Ottobre 2020 di Elisabetta Meccariello

Da ragazzi andavamo al mare a mezzogiorno. Saltavamo sulle macchine roventi, in cinque, a volte in sei, tutti appiccicati, tutti incastrati, le gambe strette e sudate che si incollavano ai sedili, con le magliette sdrucite e la pelle che si mischiava ai tessuti.
Non ci importava di nulla. Due spiccioli in tasca per il caffè e le sigarette, occhiali da sole presi da una bancarella, un asciugamano. Nient’altro. (Poi sarebbero comparsi i cellulari, ma alle prime scorribande nessuno ne aveva uno. Ci davamo appuntamento ai parcheggi, agli angoli delle strade, alle fontane, a volte aspettavamo ore, incerti se quell’amico sarebbe arrivato oppure no. Starà ancora dormendo? Sarà già sceso in spiaggia? Aspettiamo altri cinque minuti). I finestrini abbassati, il vento che ci deformava la faccia, la radio altissima e le voci spezzate. Oppure il silenzio e gli occhi socchiusi, mentre i piedi scivolavano nelle ciabatte infradito scollate, i capelli fluttuavano nell’abitacolo. Il mare a mezzogiorno è per gli impavidi.

Ci sono luoghi in cui ritorniamo. Reali oppure immaginari, sono luoghi dove abbiamo provato qualcosa o perso qualcuno, dove ci siamo sentiti felici o disperati o amati, dove pensavamo di aver fatto qualcosa o di avere ancora tutta la vita per realizzarla. Sono luoghi che restano assopiti nella memoria, si nascondono sotto le cose di tutti i giorni e all’improvviso si destano per ricordarci chi eravamo a vent’anni e chi pensavamo di diventare. La mente va a rifugiarsi lì di tanto in tanto, quasi inconsapevolmente, si siede in un angolo e osserva: annota i dettagli, ravviva i colori, apre le finestre per far entrare aria fresca. È un’immagine sempre nitida, nonostante siano trascorsi trenta o quarant’anni. È il luogo in cui ritorniamo, in cui ci sentiamo noi stessi, in cui urliamo o sussurriamo o ci scateniamo sulle note di quella canzone, è il luogo in cui ci rannicchiamo, esausti, per addormentarci.

Da ragazzi andavamo al mare a mezzogiorno perché eravamo di fuoco. Niente ombrelloni, niente creme solari, nessuna accortezza per la fase digestiva. Una bottiglia d’acqua per quindici persone.
Ci piazzavamo sulla riva incuranti dei bagnanti, un tetris calcolato di teli da spiaggia, incroci di sguardi, intimità e parole non dette. (Stasera che facciamo? C’è quel locale a San Nicola, le ragazze entrano gratis, mettiamoci in lista, c’è anche la consumazione omaggio, poi dividiamo).
Un tuffo in acqua per rinfrescarci, una passeggiata lontano dagli altri per confidare un sogno o un segreto o un peccato, una lotta improvvisata per sfiorarsi e sentirsi più vicini. Il mare a mezzogiorno è per i visionari.

Ci sono luoghi perduti, a volte sommersi o nascosti, spesso dimenticati. Possono essere sepolti sotto la vegetazione, ne scorgiamo un muro, una porta, un infisso. Sono luoghi dove il tempo si è fermato, dove la vita trattiene il respiro. Eppure, qualcuno, proprio lì, si è sentito felice o disperato o amato.
Dove sono finite quelle emozioni? Sono ancora qui? Sommerse, nascoste, spesso dimenticate.
Ci sono luoghi in cui ritorniamo per sentirci ancora vivi.
Ci sono luoghi in cui ritorniamo per morire.

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Postato in: Lo sfogone, Oceani di autoreferenzialità Tag: Clive Owen, film 2020, Giorgia Farina, il mare a mezzogiorno, Jasmine Trinca, luoghi perduti Fai un commento

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