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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Grand Designs | Una breve psicopatologia

8 Giugno 2020 di Carlo Benedetti

La campagna inglese non ti è mai piaciuta: pecore, erbacee perenni e annuali, pettirossi e merli, muretti a secco che disegnano diamanti dalle tonalità digradanti, verdone, verde acquamarina, pisello. Eppure ti ritrovi ad osservarla attraverso le finestre di una camera matrimoniale, piano terra, di una casa che si srotola secondo la costante di Fibonacci. L’ha costruita una coppia di sessantenni facendo gran parte dei lavori. Non è bellissima, sebbene sia eccentrica. Guardando quella coppia litigare, rappacificarsi, discutere sulla follia del loro progetto, se devi essere sincero e guardarti dentro senza pietà, confessando tutto quello che c’è da confessare, se devi fedelmente tirare fuori quel che un leggero senso di stupore e un ego indignato cercano di nascondere ad ogni costo, dovresti ammettere di essere invidioso.

Non della casa, troppo grande e inutilmente convoluta; non della seppur piacevole vista su campi (che immagini odoreranno di sterco durante l’estate); neppure dell’insopportabile nipotino della coppia che a 4 anni fa già il gradasso davanti alla telecamera offrendosi di aiutare la nonna solo quando c’è qualcuno ad inquadrarlo; no, quello che invidi a due inglesi sessantenni che probabilmente non si sfiorano sotto le coperte da un decennio, che, si vede, a malapena si sopportano, che non si stimano più da molto, molto tempo, è che stanno dalla stessa parte. Che sono realmente, totalmente, irrimediabilmente insieme. Non sei sicuro che si amino (cos’è poi l’amore?), ma è chiaro come il sole di un tramonto britannico – estenuato e snervante – che quei due giocano nella stessa squadra e non uno contro l’altro. Che sono, nel senso più vero e profondo, duro come il granito, una coppia.

Hai visto innumerevoli case nascere nelle città o nelle periferie inglesi, gallesi, irlandesi e scozzesi. Molte eleganti, alcune insopportabili. Ma quelle che ti ricordi meglio sono quelle che ti fanno pensare: stanno su perché sono in due. Sapresti disegnare ad occhi chiusi la panchina in legno piegato a vapore che un trentenne ha costruito piegando centinaia di piccole travi in legno per l’ingresso della sua nuova casa, finita una settimana prima che la moglie partorisse il loro secondo figlio. Moglie che, incidentalmente, per risparmiare qualche soldo, ha piastrellato il bagno padronale.

Non sarebbe bello vivere la vita così? Con qualcuno nella tua stessa squadra? Anche se non lo sopporti, se odi ogni suo sorriso idiota e quel suo modo stupido di addormentarsi? Quando si dimentica di salutarti o di chiederti come stai? Quando non capisce un film o un libro e non apprezza la musica?

Visto che devi, a quanto pare, essere sincero, un’altra cosa, peggiore dell’invidia, guarda insieme a te quelle coppie costruire case in giro per un’isola che una volta era un impero. La senti accanto, anche se sei da solo. Anche se non c’è nessuno a farti notare che tu sei più vecchio di quasi tutti quelli sullo schermo. Che non hai piegato neanche un ramo d’ulivo per farne un forchettone da pasta. Che stai chiaramente perdendo tempo.

Qualcosa che ti sussurra all’orecchio che per te, tutto questo, non ci sarà mai.

E, per quanto tu scandisca “No, non sarebbe bello”, la verità è che non lo saprai mai.

In fondo, ti dispiace.

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Postato in: Oceani di autoreferenzialità Fai un commento

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