La casa è un processo continuo di separazione e riorganizzazione, uno spoglio perenne di ciò che sarà conservato o bandito. Nel disporre le cose al loro posto, anche attraverso composizioni disordinate, alcuni oggetti smettono di contenere memoria: non sopravvivono a chi li ha posseduti.
Nella foto, il corpo di una donna dai seni prominenti, sorretti da un busto corto e deciso. Serena incrocia le braccia sul ventre, confonde le intenzioni di un sorriso netto, stemperato dalla bassa qualità dello scatto. Gli occhi sono puntini muti, neri e lontani.
Era arrivata due anni prima, insieme a lei un inverno già caldo. Esuberante, bassa, larga, sempre una frase in bocca da dire: non era dotata di eleganza e si muoveva senza badarci. Serena spazzolava i denti in corridoio, pettinava i capelli in cucina e spruzzava il deodorante in camera. La confusionaria manutenzione di un corpo da salvaguardare era intensificata durante i giorni feriali. Andava in palestra la mattina e tornava dal lavoro di sera, fischiettando le canzoni in radio, ascoltate nel traffico, in macchina, o un nanananana qualsiasi, quando niente di meglio le veniva in mente. Cantava per farsela passare, diceva, anche se non era certa cosa dovesse farsi passare. Le piaceva raccontarsi come ottimista nell’eventualità di trovare la prova verso cui essere ottimisti con piacere.
Fiduciosa di realizzare ciò che ancora ignorava, non aveva nessun dio e non credeva agli idoli. Tutte le filosofie erano una burla, la vita una pagliacciata, i governi la somma di una ruberia portata avanti dal grado zero della storia, quando il primo essere umano aveva esercitato il diritto all’avidità e al potere. Pensava alla democrazia come una parola buona, una parola dolce: ripeteva che la schiavitù in Africa era una benedizione per i palati europei. Il cioccolato non era di suo gusto.
Mangiava tonno o uova, infilati dentro fette di zucchine cotte in acqua. Tirava su quella poltiglia con del pane abbrustolito e masticava frettolosamente come mastica un cane pronto a saziarsi, senza interesse di scoperta. Oltre a nutrirsi, non trovava piacevole leggere, truccarsi, avere relazioni sessuali che durassero oltre il week end, con beneficio del dubbio quando capitava un cazzo grosso così, proclama trionfante che veniva annunciato all’alba del primo caffè domenicale e fissato con una x sul Calendario Filosofico ™ in cucina, ai fini di una ricerca statistica con osservazione partecipante, orientata ad attribuire spessore epistemologico a massime come: 18 – chi non ha abbastanza tempo da dedicare a se stesso, non ottiene grandi cose. Senza zucchero, finito il caffè, si vestiva per andare a vedere il mercato. A vedere, così diceva perché con gli occhi constatava cosa resta tra il non è ancora ora e l’ormai stanno per finire; offerte limitate al servizio del tempo che cambia o la stagione che dispone, nelle forme dei grovigli rinnovati, di settimana in settimana, tra le traiettorie dei soliti banchi, una novità, ma lenta a cambiare.
Preferiva pescare vestiti che erano già stati di qualcuno nelle ceste dei panni alla rinfusa e, in termini individualistici, riteneva che in amore l’autenticità esiste solo quando l’altro sviluppa un rapporto di dipendenza. Un euro a capo, con l’occasione finiva per accumularne troppi. Al cambio d’armadio non sapeva più che farsene: in termini collettivisti riteneva che la delusione nei confronti dell’amore fosse un sottoprodotto nei confronti della delusione per la società.
Tornava per pranzo piena di buste, sudata, si stendeva sul divano col giubbotto ancora indosso. Allora, ti devo raccontare cosa è successo, annunciava, battendo il palmo sulla coscia due volte come a sancire la certezza di un corpo immortale, bellezza definitiva e resistente. Si alzava di scatto e cercava lo spettatore assente di scene chiuse due sere prima, che rinnovava la vicinanza, come in un salto indietro nel tempo, per la ratifica di riferimenti comuni: quella volta quando siamo andate, l’amico di, hai presente quando mi hai detto che, ti ricordi? Cambiava stanza mentre la vicenda sfumava e prendeva i contorni di altri testi, incontri mancati o mai accaduti, storie di altri, storie di personaggi famosi mescolate al quotidiano, ad un passato restaurato in lapidarie parabole da tramandare: riposare è importante come in Erasmus addormentarsi per sbaglio prima della cena al Bataclan; i sensi di colpa anche nelle cose giuste se la faccia nera del fratello si era rigata di lacrime al pensiero di aver picchiato un’ottantenne che, aggrappata al corrimano, non voleva saperne di lasciare l’appartamento in fiamme; i nostri grandi esempi al femminile con il mutismo di Ainett Stephens, il culo di Michelle Hunzicker, la scossa di Giovanna Civitillo e la diva della tv: Elisabetta Canalis; il tempo che manca sempre a pensarlo indietro e il presente tenace della casa che ci abita, casa che piega e distorce un futuro preteso in avanzo, disponibile per chi non ritroveremo: presto torno a salutare.
Nella foto un sorriso pieno, indebolito dalla bassa risoluzione. Il mare piatto e opaco sotto polpacci torniti, tatuaggi a decorarne le forme. Qualcuno la troverà. Domanderà: chi è questa?.
Le finestre saranno spalancate, la camera una gola bianca.
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