di Luca Giommoni
Inevitabilmente, il governo è dovuto intervenire. Per una buona integrazione i corsi di italiano non sono necessari, ha deciso, e mi sono ritrovato senza lavoro.
Per richiedere la disoccupazione avevo otto giorni di tempo. Il settimo mio padre mi ha invitato alla sagra della polenta.
Un senso di colpa latente mi ha spinto ad andare, del resto ho lasciato mio padre ancora più solo da quando sono andato a vivere a Firenze, ed ero il suo unico ospite alla cena di ringraziamento per i volontari della sagra.
Mi sarebbe piaciuto trovare il paese riunito come quello sotto le capriate della Roadhouse in Twin Peaks, anche solo di facciata, ma le parole biascicate come bocconi e il vantarsi serenamente di calzare scarpe Geox mi hanno ricordato più certe trasmissioni di Rete 4.
− Che lavoro fai? – è stata la domanda più gettonata.
Ho tentennato prima di rispondere. Dire “Scrivo”, senza aver mai intascato un euro, nella testa di chi riconduce il tempo a disposizione al denaro, avrebbe causato troppi interrogativi che mi si sarebbero riversati addosso, quindi ho risposto: − Sono disoccupato.
− Ha la passione per la scrittura – ha aggiunto a mo’ di alibi mio padre, sottovoce, con candore paterno, come quando si legge “Vorrei la pace nel mondo” nella letterina di un bambino a Babbo Natale.
− Mio figlio ha scritto qualche articolo per “La voce del vicariato”, il giornalino della diocesi, prova anche tu, no? – mi ha suggerito una faccia simpatica.
Ho versato un giro di vino a tutti e, con un’espressione da “ci penserò”, ho dissimulato un bestemmione. Avrei potuto precisare che avevo pubblicato qualche racconto, ma mio padre sembrava felice pure così, del solo avermi accanto, anche da disoccupato e da scrittore spiantato.
− Domani vai a richiedere la disoccupazione? – mi ha detto, rientrando a casa, come buonanotte.
− Sì – ho detto e il giorno dopo, al patronato, mentre apponevo l’ennesima firma, un certo sconforto è cresciuto in me, uno sconforto che ho riportato a casa, fin sul divano. Poi ho accesso la televisione.
C’erano i Ghostbusters.
Di colpo la disoccupazione, il precariato, il dover iniziare da zero un’altra volta, mi facevano meno paura, alla stessa maniera di come da bambino riuscivo a prendere sonno pensando che se Pennywise avesse fatto capolino da sotto il letto, dei raggi protonici, tra una battuta e l’altra, in un crescendo delle note della canzone di Ray Parker Jr, lo avrebbero rispedito in una dimensione lontana.
Mi sono complimentato con l’emittente televisiva per permettere alle nuove generazioni di scoprire come il dottor Venkman, il dottor Stantz, il dottor Spengler e il dottor Zeddemore, in amicizia, riuscivano a catturare le nostre angosce quotidiane e a farle convivere in un’unita di stoccaggio dal colore rosso, simile a quello del cuore, e dalle dimensioni di una città. Ma forse mi sarei dovuto preoccupare per le nuove generazioni, visto che, cresciuto a pane e Ghostbusters, tra una battuta e l’altra, in amicizia, a 33 anni, ero senza lavoro, senza nessun stato di grazia e senza l’attaccatura frontale di Harold Ramis.
L’espressione incredula di Walter Peck mi ha ricordato che nel film il vero nemico non sono i fantasmi ma gli ambientalisti, e va be’, agli anni ottanta gli si perdona tutto, nonostante loro non abbiano mai perdonato la leggerezza con cui i nostri genitori ci hanno buttato nel mondo.
Da quando ho sentito la saracinesca del garage aprirsi, sapevo che mio padre, di ritorno dal lavoro, con comodo, avrebbe girato intorno alla questione, come se non lo riguardasse direttamente, per poi domandarmi: − Ma insomma, cosa vuoi fare da grande?
Mi sono venuti in mente l’amarezza di Morselli dopo la lettera di rifiuto di Calvino, la scarsa capacità oratoria come conferenziere itinerante di Melville, l’articolo “Perché essere contro l’immigrazione” scritto dal figlio della faccia simpatica nel giornalino parrocchiale, e ho risposto: − Voglio fare l’acchiappafantasmi.
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