Di Luca Giommoni
Per intenderci: se da bambino dal mio armadio fossero usciti contemporaneamente It, Saddam Hussein e Bugs Bunny non avrei sperato né nell’aiuto di Batman né nell’intervento delle Nazioni Unite, ma solo nelle nocche e nella determinazione dei fratelli Cagnotti.
Per capirci meglio: se Hemingway avesse passeggiato nella spiaggia della Fertilia una mattina di inizio estate del ’92, la stessa mattina in cui la Loli, bagnandosi le caviglie adipose, si era ritrovata davanti uno squalo leuca di quattro metri, vivo, arenato sul bagnasciuga, e il buon Ernest avesse assistito a come i fratelli Cagnotti prendevano in mano la situazione, muniti solo di canotta, rotoli di ciccia, ombelico sudato, costume della Fila, polpacci pelosi e ciabatte da mare, probabilmente, avrebbe pensato che della vita non aveva capito nulla, riscritto ex novo Il vecchio e il mare e avuto un motivo in più per farsi saltare le cervella.
Da Santa Liberata a tutto il litorale, non c’era residente, bagnino, donna alla finestra, barista, villeggiante abituale, uomo o bambino, che non sapesse chi erano i fratelli Cagnotti.
I fratelli Cagnotti erano quelli che avevano ucciso a botte uno squalo.
Per alcuni, erano quelli che, con la sola forza delle mani, avevano risolto un imprevisto da cinque tonnellate arrivato a minare la serenità della costa. Per altri, erano quelli che avevano sfidato, e vinto, un emissario di quell’enorme distesa bagnata, profonda, insondabile e dalle stesse infinite possibilità di un giorno nuovo. Per altri ancora, erano quelli che, in una mattina di giugno, a pugni e cazzotti, avevano avuto la meglio su una creatura vecchia quattrocentocinquanta milioni di anni e sopravvissuta a tutte e cinque le principali estinzioni di massa. Per me erano semplicemente degli eroi, anche se la maggior parte delle volte li avevo visti seduti sulla panchina del bar a parlare di Inter, a fumare diana rosse e a sorridere a qualche culo che passava.
Se quello squalo rappresentava una sfida naufragata da un futuro salato come il mare, allora ci si poteva fare. Senza grazia, senza armi a disposizione, senza alcun particolare punto di riferimento, anche il futuro si poteva combattere. Me lo avevano insegnato i fratelli Cagnotti. Anche il futuro si poteva uccidere a mani nude.
Così quando è stato il momento me ne sono andato dal paese, lasciando la tomba di mia madre, mio padre più solo e una mansarda piena di Dylan Dog con la speranza di alzarmi da nuovi cuscini, in giorni al di là dell’Aurelia, con un contratto a tempo indeterminato e uno stipendio determinato.
Poi quando è stato il momento sono tornato al paese, lasciando una stanzetta odorosa d’ombra e di sudore, un numero di cellulare preso qualche sera prima, una bolletta dell’Enel sul comodino, con la speranza che i vari sostituti d’imposta si ricordassero di certificarmi le ritenute d’acconto delle notule emesse l’anno precedente e che l’impresa funebre si occupasse di tutte le pratiche della tumulazione con ricongiungimento al coniuge.
Solo una certezza avevo: appena avessi rivisto i fratelli Cagnotti, appena mi fossi rifugiato negli angoli morbidi dei ricordi, ogni cosa si sarebbe aggiustata nello stesso modo di quando un sabato pomeriggio era una marmitta da competizione in uno Zip 50, una bottiglia di spuma e tutto il tempo del mondo.
«Cosa succede?» ho chiesto a un mio vecchio compagno di scuola, riferendomi all’eccitazione di una sfilza di ragazzini, che dovevano essere i figli dei ragazzini con cui ero cresciuto, fuori dal bar del paese, che si presentava come sempre, forse solo più piccolo, con meno luce.
«Sono i Cagnotti» mi ha detto il mio vecchio compagno di scuola. «Fanno la rievocazione per loro» e ha indicato il gruppetto di ragazzini che aveva già tirato fuori il cellulare e intonava cori da stadio. «In realtà la fanno per chiunque, basta offrirgli un giro di bevute» ha precisato.
«Mi dispiace per tuo padre» ha detto poi. «Sembra assurdo fare un discorso del genere a quarant’anni ma l’unico vero momento in cui diventiamo grandi è quando non abbiamo più nessuno da chiamare babbo e mamma».
«Quale rievocazione?» ho chiesto.
«Vedrai» mi ha sorriso dandomi una pacca sulla spalla.
Poi è arrivato il materassino gonfiabile. Uno squalo azzurro, sorridente.
Poi è arrivato quello che rimaneva dei fratelli Cagnotti dopo una vita passata seduta sulla panchina del bar, a parlare di Inter, a fumare diana rosse e a sorridere a qualche culo che passava.
I ragazzini ridevano, scattavano foto e giravano video. Gli habitué del bancone guardavano in silenzio con gli occhi lucidi di una nostalgia che non smetteva di fare male.
Poi è iniziata la rievocazione.
Sarà perché come cornice di quel massacro non c’era il mare ad allargarsi fino all’orizzonte ma quattro pareti disadorne. Sarà perché non c’era la possibilità di guardare lontano e immaginare altri approdi, altri sottofondi, altro tempo. Ma una veranda in eternit, pile di sedie, una caldaia arrugginita, bottiglie vuote e un vecchio congelatore a pozzetto della Sammontana dimenticato. Sarà perché a coprire il rumore della violenza non c’era la nenia confortevole delle creste spumeggianti delle onde. Sarà perché non ho più nessuno da chiamare babbo e mamma, ma guardando i fratelli Cagnotti riempire di botte un animale gonfiabile in vinile robusto vedevo solo due vecchi che tiravano pugni sulla riproduzione plastificata di un futuro morto quasi trent’anni prima.
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