Il Frantz di Ozon (che non a caso si chiama Francois) è il protagonista-assente dell’ultimo film del regista francese. Il centro vuoto del film è morto nella prima guerra mondiale, ed è attorno a lui che si sviluppa tutta la vicenda narrata (e che il personaggio si chiami appunto Frantz ci farà pensare a noi gente colta oltre misura a concetti quale Morte-dell’autore, ma adesso non ho il tempo di spiegarvi il concetto perché sono iper di fretta).
Il film ci è parso buono, dopo una serie di film forse meno riusciti, e si va a inserire in un genere (che è poi il modo di far film di Ozon) che è uno dei due principali modi possibili di far cinema negli anni dieci del duemila, a nostro modo di vedere.
Da un lato il modello estetizzante con improvvise incursioni nella violenza e nell’irrazionale (Refn) e dall’altro il procedere nell’asse narrativo dando allo spettatore risposte che poi vengono puntualmente smentite, perché in generale non c’è nessuna Risposta (Farhadi, Mungiu, Ozon).
Questo di Ozon oltre a inserirsi in questo genere cinematografico ormai canonico nel 2016 va a inserirsi in una ulteriore sotto-categoria di cui fanno parte pochissimi film, al momento me ne vengono in mente solo due, ma del resto sono le sette e quarantasei di un lunedì mattina e non ho troppo tempo di pensarci perché tra un’ora devo essere in ufficio.
L’altro film di questa categoria è Una giornata particolare di Ettore Scola, con Loren e Mastroianni sul tetto, per intenderci.
Perché si parla di rapporti umani, di fluidità, del nostro bisogno disperato di aggrapparci a categorie. Di mettere cartellini dappertutto, dove ci sia scritto etero, gay, trans, bi.
Questo -sembra suggerirci Ozon ambientando il film cento anni fa, e quindi dialogando con un tempo lontanissimo e secolare- fa un po’ ridere, suona un po’ semplicistico, ma così è.
Sono le sette e cinquantaquattro e tra un’ora sono dietro alla mia scrivania, devo ancora lavarmi la faccia e mettere la mia bella etichetta addosso. Scappo. La giornata può iniziare.
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