Sul divano, distratto dalla TV sintonizzata sul solito canale che trasmette il solito salotto d’opinione dove i soliti ospiti si intrattengono con i soliti argomenti, leggo La morte del padre, il primo volume dell’enciclopedico ciclo di romanzi in cui lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgård – un Proust trovato sotto un fiordo, qualcuno ha detto; un mitomane che ci prende tutti per il culo, qualcun altro ha aggiunto –, ha raccontato la sua vita, tirando dentro famiglia, amici e conoscenti.
A quanto si dice, in Norvegia questa pratica non è buon costume, sono persone riservate, tant’è che qualcuno si è infastidito. Forse si sarebbero infastiditi anche in Italia ma, per ora, dalle pagine è emerso poco di pruriginoso.
Intanto il piccolo schermo della TV si riempie del volto di uno scrittore in collegamento da una stanza spoglia, senza nessuna libreria, alle spalle solo una parete bianca, semplice e pulita. Forse si trova in bagno, penso, ma non lo dice, non è sincero come Knausgård.
Gli viene domandato se lo stare forzati in casa, per uno scrittore, non sia in realtà un buon momento, quello ideale per dedicarsi al romanzo della vita (noto nell’ambiente come il GRI).
La regia manda una panoramica dello studio, io appoggio l’e-reader sul bracciolo del divano (la domanda mi incuriosisce) e nel voltarmi verso la TV incrocio lo sguardo della presentatrice, che mi imbarazza, come quando sul balcone incrocio quello dei vicini, distrattamente, attraverso finestre e porte finestre spalancate per via del caldo.
Io li osservo e loro si voltano verso me, come se l’avessero percepito, il mio sguardo. Allora faccio finta di far altro, di guardare altrove, per evitare fraintendimenti, come volessi dire loro: no, non vi sto guardando, è tutto un caso, io qui sul balcone a fumare, voi lì a far lo stesso o forse a far altro, la mia vita che si incrocia per un attimo con la vostra.
Intanto la regia è tornata sullo scrittore, sul suo faccione animato da una certa apprensione, come quella di chi tentenna nell’applaudire perché non sa se la performance è finita o meno.
Prova qualche posa poi si sente pronto, punta l’indice, si incurva, sembra lo Zio Sam, e ammonisce: «la scrittura ha bisogno della vita, e questa clausura è assenza di vita».
Stacco.
La regia torna in studio.
La presentatrice ringrazia e passa a questioni più urgenti.
Defilato, sul mega schermo dello studio, il volto dello scrittore appare sgomento. È come se tutte le comparsate fatte fino a quel giorno, tutte le inutili e indigeste polemiche cui era stato chiamato a rispondere, ad altro non fossero servite che a lastricare la strada verso quella domanda: il momento in cui gli si chiede di parlare di ciò che sa: di scrittura, e non di economia, società, legge, ecologia, migrazioni o chissà che altro. E tutto fosse finito così, in una fiammata aforistica che ai più sarà pure suonata retorica, agli altri… bo.
Ritorno su Knausgård e mi imbatto in questa frase: «La scrittura è questo. Non quello che vi succede, non gli avvenimenti che vi si svolgono, ma lì, in se stessa. Lì, risiede il luogo e l’obiettivo dello scrivere».
Rileggo un paio di volte. Sottolineo, perché mi sembra abbia un senso, ma mi sfugge appena credo di averlo colto.
Forse Knausgård si riferisce alla famosa “lista della spesa” che si tira fuori ogni qualvolta qualcuno elogia le capacità narrative di qualcun altro, ma non sono certo.
A leggerlo, mi sembra che prenda molto alla lettera quello che succede nella sua vita, gli avvenimenti, i dettagli, le persone, e dunque converrà con quanto detto dallo scrittore in collegamento dal bagno di casa sua. Eppure perché a me dovrebbe interessare leggere del capodanno di un adolescente norvegese passato a bere birra fino a sbronzarsi nello scantinato della casa di un amico, in maniera non troppo dissimile da quanto già nella mia vita è successo? Cosa mi sta dicendo Knausgård in più rispetto a quanto già so?
Non lo so, ma in questo momento ho la sensazione che lo scrittore in TV, con buona pace sua, mia e di Knausgård, poteva giocarsi meglio il suo momento, per rivelarci una verità che ci sfugge come un’anguilla.
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