All’inizio degli anni Cinquanta George aveva cinque anni ed un sabato pomeriggio suo padre lo portò, senza grandi aspettative e quasi per scherzo, al Tennis Club che aveva appena aperto a pochi metri dalla loro casa di Miami. Da quel momento George non aveva mai smesso di giocare a tennis. Divenne un’abitudine settimanale: il sabato George prendeva lezioni private di tennis e suo padre aveva l’occasione di sbevazzare e far chiacchiere con i vicini di casa tenendolo d’occhio.
Una volta iniziata la scuola, George chiese a suo padre di intensificare le lezioni e così, durante i cinque anni di Elementary school, per due pomeriggi a settimana George usciva da scuola e si recava direttamente al Club, senza però rinunciare alla tradizione del sabato.
George amava il tennis, ma del tennis George non amava soltanto il momento del gioco – in effetti non era particolarmente forte – ma anche e soprattutto il Club. Il Club era un mondo di adulti gentili, tutti lo conoscevano e lo salutavano e le domande sui suoi allenamenti non erano mai troppe.
A dieci anni George era il più fedele habitué del Club e tutti lo trattavano con grande rispetto. Aveva vinto la sua timidezza e, pur continuando con le lezioni, ormai giocava con gli altri tennisti di tutte le età, coi quali si accordava per una partita al Club diverse volte a settimana. George non era un tipo competitivo e, infatti, non avrebbe mai partecipato ad un torneo in vita sua, non sognava né Wimbledon né il Roland Garros: sognava il Tennis Club. A tredici anni, a chiunque gli chiedesse cosa volesse fare da grande, George rispondeva senza esitazione «aprire il mio tennis club».
Non solo George non aveva aperto un club, ma era arrivato il momento di partire per il college ed aveva dovuto, a malincuore, abbandonare Miami ed il Tennis Club per andare a studiare economia all’università. Alla Columbia, fortunatamente, avevano dei campi da tennis e George aveva subito individuato i compagni tennisti. Dopo una laurea a pieni voti in finanza, George trovò un impiego in una grande banca di investimenti. All’università aveva conosciuto Clarice e, dopo la laurea, l’aveva sposata. I primi anni di matrimonio furono turbati da frequenti litigi perché, qualsiasi cosa accadesse – e non c’era compleanno o anniversario che tenesse- per tre sere a settimana George andava a giocare a tennis e, soprattutto, non aveva mai rinunciato al sabato. Sua moglie, ormai rassegnata, imparò a sbevazzare e chiacchierare con le altre signore al circolo del tennis del Midtown dove, a chiunque gli chiedesse del suo lavoro e dei suoi successi, George rispondeva con un laconico «ah, sì, ma quando aprirò il mio circolo del tennis, allora sì…». Clarice sorrideva e commentava che non poteva farci niente, quella di suo marito era proprio un’ossessione o, come diceva lui, una passione.
Gli anni passarono e la coppia, senza figli, visse una vita agiata e tranquilla, la fedeltà al tennis di George gli permise di mantenersi incredibilmente in forma nonostante l’età. I due a New York avevano molte amicizie ma, quando per George arrivò il momento della pensione, non ebbe dubbi: erano ricchi, avevano un grosso capitale in risparmi e lui percepiva un’ottima pensione… era arrivato il momento di tornare in Florida ed aprire il suo tennis club. Ne seguirono liti furiose ma alla fine Clarice, stremata, acconsentì. George venne a sapere, tramite gli ex colleghi, che un bel cottage circondato da un vasto terreno era in vendita a circa novanta chilometri dal centro di Miami.
La proprietà era della banca per la quale aveva lavorato per quarant’anni e lo avrebbe comprato a un prezzo agevolato: era l’occasione giusta, lui e Clarice avrebbero potuto trasferirsi nel cottage sin da subito e seguire sul posto i lavori per la costruzione del tennis club.
La zona confinava con una riserva dei nativi americani Miccosukee e nei primi anni Duemila c’erano state numerose proteste contro l’insorgere di complessi turistici intorno all’area, il comitato sosteneva che la stessero accerchiando e che tardi o presto i nativi avrebbero ricevuto delle offerte così consistenti da cedere alla cessione dei loro lotti. Il terreno sul quale sorgeva il cottage di George, tuttavia, era stato acquisto dalla banca addirittura a fine Ottocento, proprio al momento della privatizzazione dei lotti, e lui non era minimamente preoccupato. In effetti George non poteva neanche immaginare che qualcuno al mondo potesse disapprovare l’apertura di un tennis club.
Nei membri del comitato però, non bruciava la stessa passione che in George; il tennis club avrebbe destato interesse, attirato investitori, causato la costruzione di hotel e magari dell’ennesimo casinò… ed il tutto confinante con quel che restava della riserva: bisognava fare qualcosa. Fu organizzato un presidio e la chiamata fu a tutte le comunità native della Florida. L’iniziativa fu accolta con entusiasmo.
Non era chiaro in che momento del presidio le bombe carta fossero state lanciate e neanche come il fuoco fosse divampato così velocemente raggiungendo il cottage prima dell’arrivo dei pompieri – il proposito era di causare un danno economico consistente e spaventare abbastanza i proprietari da farli tornare sui loro passi – ma successe. Fuoco, fumo, botte, spari.
Clarice, ancora convalescente, volle che il funerale si svolgesse a New York, dove si erano conosciuti e dove avevano vissuto il loro matrimonio. La cerimonia fu molto partecipata e tutto il circolo del tennis era presente. Il pastore iniziò a parlare: “George ci ha lasciati per inseguire la sua passione, il tennis…”
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