Alla proiezione del sabato pomeriggio, al cinema Alfieri, c’era la retrospettiva del regista giapponese: era l’evento che io aspettavo con l’acquolina in bocca perché sapevo vi avrei incontrato i veri volti del Festival dei Popoli.
Lontanissime le serate-evento e le luci colorate, lontanissimi i film con temi legati al presente storico; la proiezione del sabato pomeriggio, il documentario di minuti 150 per lo meno, dello sconosciuto regista giapponese, era quello che io cercavo e attendevo tutto l’anno.
Riconobbi immediatamente i soliti volti noti: l’uomo dalla lunga barba e i lunghi capelli grigi, immancabile a ogni Festival dei Popoli. L’uomo con il gilet nero, la camicia nera e i tratti lynchiani (quest’uomo ho il sospetto che non solo ci sia a ogni Festival dei Popoli, ma che ci sia sempre, cioè che lavori nei cinema come maschera, e per questo sarebbe onnipresente, come i figli dei ferrovieri che viaggiano in treno gratis, per tutta la vita).
Infine arrivò anche il presentatore con il pastrano e i sandali monacali e la barba ad accompagnare il regista giapponese in persona, e dopo un breve saluto, una sala di circa dieci spettatori iniziò la visione del film.
Il documentario era bello. Non ne dirò una parola di più, solo che era bello.
Alla fine del film noi dieci spettatori eravamo rimasti tutti e dieci, malgrado il regista giapponese avesse espresso dubbi al riguardo, prima dell’inizio della sua stessa pellicola. Il regista era molto simpatico, di una simpatia giapponese, a tratti mortifera, autodistruttiva, cupa, ma sempre onestamente divertito della follia che scuoteva il mondo (e anche il film parlava in fondo di questo).
Ci fu come ogni a Festival dei Popoli il breve sterile dibattito a seguire, le domande sagaci del presentatore con i sandali monacali, la traduzione spenta del traduttore storico dei Popoli e, infine, dopo altre due domande che erano per lo più osservazioni, l’invito alla masterclass con il regista, gratuito, aperto a tutti, che si sarebbe tenuta la domenica mattina dalle nove e trenta alle tredici e trenta e, con gli stessi orari, il lunedì mattina. Sì, il lunedì mattina.
Diana allora mi guardò come a dire, ma come pretendono che uno di lunedì mattina possa venire, lasciare il mantello e seguire l’uomo con i sandali monacali? Non lo sanno che le persone lavorano? Eppure in teoria qualche documentario sul tema del lavoro l’avranno visto.
Io allora annui, dandole automaticamente ragione, ma pensando beffardo al mio part-time-felix, che se solo avessi voluto, prendendo un oretta di permesso che nessuno mi avrebbe negato, l’incontro con il giapponese l’avrei anche potuto fare.
Poi era tempo di uscire, fuori il foyer era strapieno: io e Diana ci guardammo stupefatti pensando che fosse avvenuto il miracolo: Festival dei Popoli, eccolo il Popolo! Il pubblico ha risposto alla chiamata! Ci sono tutti, finalmente Firenze ha lasciato il suo abito di piccola città di provincia e si è resa recettiva all’offerta culturale. Ma era solo il film-evento delle 19, a cui prendeva parte una cospicua parte della città per delle conoscenze regresse (ora che lo scrivo non voglio dire che il film delle 19 non fosse buono, lungi da me, ma solo che le dinamiche per cui la gente vi si era recata erano apparentemente altre rispetto al puro e semplice: sacrificio di sé).
Scivolavamo per Via dei Pepi con arie tetre, i pensieri ancora al giapponese e al suo workshop di lunedì mattina, a quella sala semi vuota. Ci accompagnava la nostra amica Annalisa che ci parlava della sua esperienza di insegnante a Brozzi, la scuola Ghandi, e ne parlava come se fosse un documentario.
Il sabato quasi finiva e noi tornavamo con il pensiero alla Domenica successiva, quando saremmo ancora tornati ai Popoli, a vedere solo i film del regista giapponese. Solo di lui ci importava, perché era quello che in verità cercavamo: un’altra domenica così, una sala semi vuota e questa sensazione che tutto fosse spacciato e al contempo possibile, quasi felice.
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