Se Narrandom fosse un film sarebbe Fandango (opera prima di Kevin Reynolds, 1985). Un classico, talvolta addirittura citato a sproposito.
Cinque universitari, i Groovers, alle prese con un attraversamento di soglia, partono verso il Messico alla ricerca di Dom. Gli ingredienti del viaggio saranno alcool, giovinezza e avventura. Rimasti senza benzina, prenderanno un treno al lazo. Trascorreranno la notte a guerreggiare in un cimitero con minorenni annoiate, per addormentarsi poi sul set abbandonato de Il gigante. E ancora, si metteranno nelle mani di un paracadutista piuttosto bizzarro, scopriranno qualcosa di sé che ancora non sapevano, e sfrutteranno l’ospitalità del sud.
La soglia era, per qualcuno di loro, ma forse per tutti noi, sempre qualcosa di differente: la partenza per la guerra; diventare adulti; un grande amore, il matrimonio, l’abbandono; farsi prete. Per tutti è, in un certo momento della vita, il passaggio da una stagione di incanto e disincanto a qualcosa di terribilmente diverso.
Ed ecco cos’è Narrandom: uno spazio fuori dallo spazio, un viaggio che attraversa luoghi e tempi letterari per ancorare, nel reciproco rispetto di redattori e autori, lo spazio immaginifico a quello reale. Senza edulcorare quest’ultimo, mai, ma descrivendolo fin dentro le sue pieghe più cupe e indesiderate. Perché se i personaggi delle storie, quella maledetta soglia, nel bene o nel male, la devono per forza attraversare, ci vuole sempre qualcuno che resti dall’altra parte, e guardi il mondo da lì.
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