Guardo questo film dopo un sofisticato consiglio di Pietro e la prima cosa che la mia fantasia complottista sviluppa è che le grandi multinazionali dell’intelligenza artificiale stanno cercando di farci accettare l’idea che robot umanoidi iperfemminili e particolarmente attraenti siano già in mezzo a noi, come in un film di Carpenter sugli alieni. Poi abbandono questa stupida considerazione in nome di una magnifica puntata di Futurama, per l’esattezza la numero 15 della terza serie, dal poco fuorviante titolo I Dated a Robot, dove Philip J. Fry si innamora di una Lucy Liu scaricata da internet. Ma continuando a confondermi sulle ambigue emozioni di Domhnall Gleeson, il protagonista di Ex Machina, e scoprendo in me stesso un crescente senso di innamoramento per Alicia Amanda Vikander, la splendida androide di origini svedesi di cui sono diventato immediatamente un ottuso stalker, ho cominciato a riflettere su quanto questo film dall’estetica alla Black Mirror sia in realtà una buona variazione sul tema di Her di Spike Jonze. E infatti non solo noi comuni mortali continuiamo ad innamorarci di queste A.I. che ci comprendono come mai nessuno ci aveva compreso prima, con tutta l’illusione inerente a un rapporto artificiale che ci scruta dentro con delicatezza fino a farci finalmente sentire persone meno tristi e alienate, ma come poi questa tecnologia inevitabilmente ci abbandoni, lasciandoci soli, tristi e sicuramente imprigionati. Certo Spike Jonze in Her dava forse un messaggio finale più speranzoso per l’umanità, cosa che Alex Garland di certo non fa, ma il meccanismo narrativo di base rimane pur sempre lo stesso. E mentre il film volge verso la fine ho come una scontata illuminazione che sicuramente tutti voi avrete già fatto: l’importanza seminale di Blade Runner per tutti i film che ultimamente stanno affrontando il tema dell’intelligenza artificiale. E più che il Blade Runner di Ridley Scott, qualsiasi libro scritto da Philp K. Dick (tra cui anche ovviamente Ma gli androidi sognano pecore elettriche?). Mi ricordo la sensazione di spaesamento che molti romanzi di questo genio hanno prodotto sui miei nervi tesi. Era come, leggendo, se avessi perso le coordinate di questo mondo e non fossi più in grado di stabilire chi fosse vero e chi solo illusione. Ma la grandezza di Philp K. Dick non consiste esclusivamente nel fraintendere ontologicamente la natura umana per condurla ad una alterazione etica, bensì soprattutto nel mostrare la consistenza porosa e labile fra vero amore e orrore artificiale, fra speranza e distopia, fra il “ti amo” e il “me ne vado”.

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