La notte dormo male. Faccio incubi che si concludono con io che salto giù dal letto nella realtà. Si tratta di ragni e insetti che mi aggrediscono da tutte le parti e si nascondono sotto la superficie più quieta e normale del giorno, dentro alle cose consuete, dietro ai volti familiari. Nel buio della notte ci metto diversi minuti per ralizzare che non sto più sognando. Poi ho crampi alla testa e tic nervosi piccoli come zampette di formica agli occhi e alle labbra. Ho disturbi intestinali perenni. A volte mi dimentico le cose. E spesso ci sono conseguenze nefaste determinate dalle reazioni degli altri. Ma dove ho la testa?
I miei amici dicono che dovrei fregarmene delle cose che mi fanno stare male (amnesie, disturbi intenstinali, incubi, malattie, etc…). Che essere passionali e prendere tutto sul personale è uno sbaglio imperdonabile. Si deve essere atarattici, catarattici, peritiflitici, acromatopsici e logicamente fuzzy. Che ti saltino i nervi è proprio una cosa non umana. E pensare che io passerei le ore, dico le ore a ribadire scimmiaggini petulanti sulla differenza tra “possibilità che esistano condizioni necessarie per la vita” e “ci sono le condizioni necessarie per la vita”. Ma come la definizione è la menzogna in cui precipita lo spirito astratto e la formula ispirata quella in cui si rinchiude lo spirito militante, così il prendersi a cuore le cose è la cella dove il santo, che è sempre uno stupido, decide di passare la propria vita.
Menomale che c’è Paul Verhoeven che tira fuori dal cappello della sua folle carriera una pellicola che rilassa i miei paranoici sovraesposti lunatici nervi. Si tratta di una commedia senza senso sullo stupro. Ci potremmo scorgere dietro anche derive thriller, ma Paul Verhoeven è talmente maligno che disinnesca ogni genere possibile per creare questa strana cosa che si chiama subconscio polisemantico e che vuol dire in parole povere che dentro di noi ogni cosa significa più cose, tipo che il tavolino significa manette, che manette significa cinquantadue, che cinquantadue significa avocado, che avocado significa ano, che ano significa rosso, che rosso significa sventrare, che sventrare significa mela matura, che mela matura significa naso, che naso significa gerontofilia e così via in una esclation di non senso che ha al suo centro la riproduzione assessuata tramite sesso e che sesso significa sesso, tautologicamente inteso e nulla più. Che vada a genio o no ai freudiani di ogni epoca alla fine non c’è una condizione di validità rintracciabile sul fondo sadiano che ci costituisce, dunque qualsiasi convinzione l’uomo si faccia su quel che è giusto o no si poggia su uno strato melmoso di illogicità e accidentalità.
È che la più trasgressiva attrice degli ultimi venti anni, Isabelle Anne Madeleine Huppert (classe 1953), riesce ad essere come quella bomba ad orologeria che ticchetta nel nostro ventre e che fa tic e poi fa tac e poi fa tic e poi fa tac e poi o esplode o continua a ticchettare dietro ad una facciata che (Justine o Juliette) parrebbe proprio normale. Ecco sì, alla fine questo film sembrerebbe bisbigliarci che l’unica cosa veramente normale nell’essere umano è scopare, tradire, uccidere, crescere in un bagno folle di sangue, intrattenersi, confessare l’apocalisse che siamo ai nostri amici con una alzata di spalle sostenendo che beh è andata così, incamminarsi su una distesa di morti, che taluni imborghesiti chiamano establishment, talaltri cimitero, per poi tornare a sognare giganteschi ragni e svegliarsi di soprassalto nella notte, i crampi alla testa, diversi minuti di terrore prima di capire che ora ci troviamo nella realtà.
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