Sicario (2015) è un film di Denis Villeneuve, quasi cinquantenne regista canadese, pluripremiato in vari festival e candidato all’oscar per il miglior film straniero con La donna che canta.
El sicario – Room 164 (2010) è un documentario di Gianfranco Rosi, cinquantenne regista italiano già leone d’oro per Sacro GRA.
Entrambe le pellicole raccontano dei cartelli della droga messicani e hanno come teatro degli eventi Ciudad Juarez, la città più violenta del mondo.
Il primo sceglie il punto di vista di Kate, un’agente FBI idealista e appassionata che entra a far parte di una squadra speciale per combattere il cartello nei suoi luoghi d’azione, rendendosi conto via via di quanto possa essere intricato quel mondo e di come legge e criminalità, buoni e cattivi, non siano altro che categorie da accademia.
Il secondo affronta sempre la porosità di questi confini partendo però dal punto di vista di un ex sicario del cartello che ha ucciso in vent’anni più di 500 persone.
Retroscena: Emily Blunt – Kate – è stata colpita durante le riprese in Messico da una violenta dissenteria che le è durata una settimana buona, conferendole quell’aria così tirata e tesa che ha nelle scene in cui guida, soprattutto.
Retroscena: racconta Rosi che l’intervistato – niente nome né volto per lui, va da sé – gli abbia detto, prima di girare: “Usually I earn 4000 $ to shoot a man, now I ask you 4000 $ to shoot me!” La frase, al di là del doppio senso della parola “shoot”, rivela le difficoltà finanziarie dell’uomo prima fuggito e poi ricercato dal cartello. (È stato il montatore, Jacopo Quadri, a prestare i 4000 $ a Rosi che ha potuto così girare l’intervista.)
Lo stile del film del regista canadese è molto simile a quello di Michael Mann, il Mann di Collateral e di Nemico pubblico – freddo e asciutto, lento e implacabile come uno zombie – puntando sulla fotografia e sulla sceneggiatura scarna che si alterna alle inevitabili esplosioni di violenza.
Lo stile di Rosi è essenziale, invisibile. Pochi campi lunghi e lunghissimi di Ciudad Juarez intervallano l’intervista\confessione dividendola in capitoli. Il sicario è ripreso quasi sempre frontalmente e da pochi altri punti di vista – ora stringe sulle mani, ora sul brillio degli occhi attraverso la stoffa nera. La particolarità della narrazione fiume dell’ex sicario è che tutti i concetti chiave espressi vengono disegnati su un quaderno – con un grosso pennarello nero, su un grande quaderno senza righe – disegni infantili, schemi, numeri, dando all’intervista un che di performativo, forse il retaggio di una terapia studiata per trascinarlo fuori da quel mondo di orrore.
In entrambe le pellicole c’è una formazione del protagonista.
La buona, a suo modo ingenua, Kate, subisce quella che si chiama “perdita dell’innocenza”, guadagnando (forse) in consapevolezza di sé – ma in fin dei conti niente che non ridarebbe indietro senza battere ciglio. Il mondo in cui si ritrova alla fine è peggiore di quello già tetro e orrendo in cui si trovava all’inizio. Alejandro, il personaggio interpretato da Benicio Del Toro, l’anima teorica e fondante del film, il cuore nudo che Kate ottiene di spiare per nostro conto, ci dice che per abbattere il male è necessario perdere prima tutto, anche il desiderio di vendetta. Il male trasforma gli uomini in cose.
Il sicario, chirurgico nelle descrizioni che fa come nelle torture che descrive, arriva lentamente a una conversione di tipo religioso, fino a diventare una sorta d’illuminato – mani al cielo e voce rotta dai singhiozzi. Il male, inteso come crimine, è qualcosa che paga, e paga molto: donne, droga, macchine. Il vuoto però che scava negli anni apre alla possibilità di una redenzione che fa ritrovare un’umanità forse mai provata prima.
–––Breve apparizione di un terzo film in cui la Kate trasformata dalle vicende incontra il sicario trasformato dalle vicende–––
La scena più dura di Sicario è la consumazione della vendetta di Alejandro – a un capo della tavola, dall’altro lo spietato boss del cartello. I due sono ormai uguali, speculari. Senza battere ciglio infatti Alejandro uccide i due figli innocenti e la moglie; quindi, per ultimo, il boss.
La scena più dura di El sicario è senza dubbio la tortura dell’acqua bollente, applicata dopo uno sgarro troppo grande per questioni di cocaina. Il malcapitato viene calato dall’alto in un enorme pentola di acqua a 100º, fino a una certa altezza. Quindi viene issato fuori e le parti bollite vengono chirurgicamente asportate in modo da non fargli mai perdere la coscienza. Così dai piedi fino alle parti vitali, un passo alla volta. Anche in altre torture la presenza del medico garantisce di rianimare il torturato dopo lo svenimento, così da perpetrare il tutto ancora una volta, e ancora una, così via. Credo che questa sia una buona definizione d’inferno: un luogo, la stanza di un hotel, dove la coscienza della sofferenza è tenuta in grande considerazione – più ancora che la sofferenza stessa – e il diavolo è un anti-anestesista.
La finzione di Sicario deve puntellarsi su elementi realistici o iperrealistici per causare nello spettatore la sospensione dell’incredulità e muoverci nel viaggio immaginato per noi, un viaggio emotivo prima che conoscitivo.
La realtà di El sicario deve puntellarsi su elementi finzionali, rappresentazioni alternative della realtà e parti recitate per causare in noi il senso di essere in una narrazione – inizio, svolgimento, climax, finale – un viaggio conoscitivo che diventa un passo dopo l’altro puramente emotivo.
Al entrar a Ciudad Juárez el viajero podrá leer en uno de los cerros que rodean la ciudad lo siguiente: “Ciudad Juárez, la Biblia es la verdad, léela”.
Es imposible no hacerse la pregunta: ¿por qué hay tantos asesinatos en la ciudad? ¿Por qué tan violencia y tan poca evidencia de la presencia de la Iglesia en la ciudad?
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