Lineas Entre dos Mundos
Del mio viaggio a La Guaira ricordo soprattutto che imparai a conoscere i suoni del sesso e del piacere.
Tutto iniziò con un giro serrato di telefonate in cui Francisco, che mia madre chiamava François, passava dal venezuelano al francese e dal francese all’inglese e poi di nuovo al venezuelano.
Ricordo che io e mia madre lo guardavamo agitarsi, e nel frattempo mangiavamo con una certa calma i nostri croque-monsieurs – che lei preparava con i pomodori freschi – guardandoci con l’aria interrogativa di chi sapeva che di lì a poco avrebbe ricevuto tutte le risposte alle proprie domande, ma che per il momento avrebbe soltanto dovuto aspettare.
Francisco era un tecnico del suono.
Con mia madre si erano incontrati alla Cave Triste un anno prima, lui doveva registrare un concerto jazz; dopo un mese da quel primo incontro, lei mi aveva detto che lo amava, e quattro giorni dopo quella sua confessione Francisco si era trasferito da noi, portandosi dietro una quantità scandalosa di dischi. A qualunque ora del giorno in casa c’era un disco che girava e si sentiva Francisco che serrava le labbra e mimava una tromba, borbottando qualche assolo: mia madre lo adorava per quei piccoli tic che aveva; io invece avevo iniziato a non poterne più di ascoltare Sun Ra o Miles Davis e mi chiudevo nella mia stanza con dei tappi per le orecchie, oppure uscivo alla ricerca di luoghi in cui i suoni erano semplici.
Francisco cominciò quasi subito a spiegarmi come usare i registratori e come microfonare gli strumenti, mi disse che gli serviva un assistente e a mia madre stava bene che quell’assistente fossi io, nonostante il fatto che mi fossi appena diplomato e dovessi ancora scegliere l’università.
Iniziai così ad ascoltare meglio il mondo e a riconoscere le vie della città grazie ai loro rumori. Mi piaceva soprattutto ciò che si sentiva sulle sponde della Senna, lo sciabordio dell’acqua contro le pietre: è banale, lo so, ma non è detto che le cose banali siano indegne di essere condivise.
Le telefonate di quella sera di luglio erano intercontinentali dal Venezuela di un amico d’infanzia di Francisco, Julio Garbi, e poi del regista venezuelano Román Chalbaud: dovevano cominciare al più presto le riprese di un film ambientato in un bordello della Guaira, El Pez que Fuma, s’intitolava. Dicevano che gli serviva un fonico di presa diretta e non lo volevano venezuelano, perché i venezuelani non erano capaci, così ci aveva spiegato Francisco mentre divorava il suo croque-monsieur. Che c’era un problema con il suono in Venezuela in quel periodo, e figurarsi che del cinema venezuelano quelli erano gli anni d’oro, e che Chalbaud era il piccolo prodigio di quel cinema sordo, così disse Francisco. Disse anche che, per una volta, desideravano fare le cose diversamente, come si deve, gli avevano detto al telefono, e così avevano pensato a lui e si sarebbero presi la briga di farlo venire da Parigi.
Io non riuscii a capire dove fosse il problema fino a quando Francisco non confessò che lui non sarebbe potuto partire perché doveva registrare un concerto al Blue Note la settimana dopo, e che avrebbe mandato me sul set per la presa diretta del Pez que Fuma e poi avrebbe sistemato lui il suono da Parigi, dopo che gli avessi riportato le registrazioni.
Julio Garbi mi venne a prendere al porto della Guaira dove io ero immerso nel tintinnio delle cime sugli alberi delle barche, e dei motori che borbottavano con una eco liquida e salata; mi strinse la mano e mi domandò quanti anni avessi e io risposi ventuno, ma mentii, ne avevo quasi diciannove, e lui disse che non poteva credere che un ragazzo di ventuno anni avesse già lavorato così tanto e in film così importanti. Capii allora che Francisco mi aveva gonfiato a dismisura e mi prese un nodo alla gola, comunque sorrisi e dissi che avrei fatto del mio meglio per il film di Chalbaud, così come avevo fatto per tutti gli altri registi con cui avevo lavorato. Garbi disse che ne sarebbero stati onorati, e mi disse che avrei alloggiato nell’albergo accanto al bordello in cui avrebbero girato quasi tutto il film.
Nelle due settimane di riprese decisi di adottare il personaggio del professionista schivo, Francisco mi aveva insegnato bene cosa avrei dovuto fare, e io avevo deciso di agire e parlare pochissimo, quasi solo in francese e quasi solo con Chalbaud, che lo sapeva parlare discretamente, tuttavia era prassi che il regista parlasse poco con i reparti tecnici, e quindi io finivo per concludere la giornata avendo pronunciato soltanto una mezza frase, o al massimo un paio, al giorno e cenando da solo al ristorante dell’albergo, perché ero sempre esausto e volevo mangiare presto e andare a dormire immediatamente dopo la cena. Gli altri, invece, uscivano e andavano a bere ogni sera. Io non capivo come riuscissero a dormire così poco e a lavorare con quella precisione il giorno successivo, spesso con i postumi della notte precedente. Ma se ci ripenso, credo che sul set io usassi molte più energie degli altri: per me tutto era nuovo, e quelle cuffie, che tenevo in testa per nove o dieci ore al giorno, amplificavano anche il più insignificante rumore, e anche suoni che non avevo mai sentito prima, per non essere distratto dai quali era necessaria molta concentrazione: i gemiti e le grida di piacere, e le sconcerie dei corridoi del Pez que fuma, mi iniziavano a entrare nella testa, e non solo lì, e io potevo salvarmi da quel canto di sirena soltanto perché sentivo la voce chiara di Chalbaud che gridava CUT oppure domandava SOUND? e allora dovevo rispondere che stavo girando e quello mi teneva a debita distanza dai suoni del Pez que fuma.
A due giorni dalla fine delle riprese mi convinsero ad andare con loro al Tiburon e finii per bere decisamente troppo. Decisi così di rientrare a piedi all’albergo per smaltire l’alcol e soprattutto per non rischiare di vomitare nel taxi, cosa che avrebbe distrutto il personaggio del professionista schivo che, magicamente, ero riuscito a sostenere per tutti quei giorni.
Quella sera accadde che camminai a lungo, e spesso domandai a dei volti con sorrisi sempre più larghi, ma con sempre meno denti, dove si trovasse Calle San Sebastian. Mi mandarono a spasso per tutta la città, e verso le due capitai in un quartiere molto silenzioso, senza macchine o traffico in movimento, in cui si sentivano ogni tanto dei versi di gatti che si azzuffavano, e nient’altro.
Seduta a gambe incrociate sulla soglia di una casa bianca vidi una ragazza, la sua pelle era scura e rifletteva la luce giallastra del lampione che illuminava la strada. Ricordo che la fissai intensamente, e lei non si spaventò, né si irrigidì, ma prese una sigaretta dalla tasca della camicia e la alzò verso di me. Decisi di avvicinarmi e di accettare quella sigaretta, e mentre feci per sedermi sentii alcuni suoni provenire dalle finestre aperte della casa: lievi grida quasi soffocate, respiri profondi e schiocchi morbidi insieme a parole sussurrate per vergogna o per vanità. Lei mi domandò in un inglese molto buono se avessi voglia di fumare quella sigaretta all’aperto oppure sdraiato su un letto morbido e a me, che girava ancora la testa, venne improvvisamente voglia di dormire abbracciato a quella giovane donna, così le risposi che avevo voglia di fumare sdraiato su un letto, ma soltanto se accanto a lei. Sorrise e mi prese per mano, mi accompagnò nella sua stanza e mi spogliò, mi sussurrò delle parole incomprensibili nell’orecchio, non era più inglese, ne ero sicuro, ma neanche spagnolo, e non era nessuna delle parole che avevo sentito prima attraverso le cuffie nel Pez que fuma, e così quello che io capii fu soltanto il rumore delle sue labbra umide che scorrevano sul mio lobo e mi ammorbidivano la cartilagine, e il suono dell’aria calda dei suoi polmoni che mi arrivava fino dentro il cervello, e anche i suoni liquidi delle nostre salive che si mescolavano, e la mia mente che si scioglieva e diventava sogno, e in quel sogno vidi il suo volto trasformarsi in una statua di pietra e poi gli occhi della statua riempirsi di lacrime e bagnarsi fino a farla ringiovanire completamente, a farlo diventare il viso di una bambina sorridente, e poi quello di una vecchia con molte rughe, che apriva la bocca, ma dalla bocca della vecchia ricordo che non uscì più alcun suono; poi ricordo solo che dormii a lungo nel buio più totale.
Quando arrivai a Parigi, era poco prima delle otto di sera. Ricordo che entrai in casa e l’unica cosa che sentii fu lo sfrigolare dell’olio; entrai in cucina e mia madre si spaventò quando la salutai, mi disse che non mi aveva sentito entrare e che non pensava ci fosse qualcuno in casa. Mi guardò a lungo e mi domandò come fosse andata, mi disse che ero dimagrito e che le sembravo più vecchio e poi mi chiese se fossi stanco, e se avessi fame; io risposi di sì a entrambe le domande. Mi guardai attorno e vidi immediatamente che nell’appartamento erano scomparse le centinaia di dischi sparsi ovunque. François ti chiamerà per il materiale del film, mi disse allora mia madre, ma sarà una cosa tra voi, io non voglio saperne più nulla.
Detti tutto a Francisco un paio di giorni dopo, e lo ringraziai, lui mi strinse la mano e disse grazie a te, poi sparì per sempre. O almeno gli detti quasi tutto: tenni una registrazione per me, una registrazione che ascoltavo quando ero sicuro di essere rimasto solo in casa, chiuso in bagno.
El Pez que Fuma non arrivò a Parigi, o forse ci arrivò ma io non mi spesi affatto per imbattermici, e non fui in grado di vederlo. Anni dopo lessi per caso un articolo del País che parlava di Chalbaud e del fatto che El Pez que Fuma, nonostante il « suo pessimo sonoro », fosse stato riconosciuto come il più importante film del cinema venezuelano.
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Questo racconto fa parte della rubrica Lineas Entre dos Mundos, percorso di avvicinamento all’edizione 2024 del festival Entre dos Mundos, dedicato al cinema iberoamericano, che si terrà a Firenze dal 19 al 21 settembre 2024.
Da giugno a settembre, ogni settimana, pubblicheremo un racconto ispirato a un film scritto, diretto, girato e prodotto in un paese dell’America Iberica.
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