Già che anche per quest’anno è passato il Festival e Ernestina mi guarda dietro ai suoi occhiali dalla montatura leggera, sotto al cappellino, con occhi scintillanti e dice: cosa faremo adesso delle nostre sere? Mentre intorno a noi una piazza assume il venerdì sera come evento reale e in un certo senso qualcosa di cui è vero noi necessariamente assegneremo un valore morale (il lavoro quale alienazione, il week-end quale pillola compensatoria, il capitalismo come continuazione e dispiegamento di concetti giudaico cristiani), ma che di fatto è semplicemente qualcosa che accade, in quella piazza, a quei tavolini, e Ernestina appunto con i suoi occhiali, il suo viso da gran visir del documentario, che poi con fare perentorio (perentorio?) continua il suo discorso dicendo: mi ricorderò sempre di questo Festival, perché Staron mi ha cambiato la vita, come farò a tornare alla fiction dopo questa meraviglia? E mentre lei mi dice questo e i lavoratori a cottimo lasciano le loro postazioni al tornio e si dirigono verso i bar della piazza a bere come noi le loro birre che aprono e dischiudono il week end io penso che ha ragione Ernestina, seppur sia la solita esagerata, quella delle fittonate, che Staron era superbo, ma che c’è in questo suo giudizio anche della foga astrologica (il suo ascendente leone), c’è un lato empatico verso il lavoro della moglie di Staron, ma c’è anche del vero, perché anche io me lo ricorderò sempre di questo Festival, come un Festival felice, con Ernestina a vedere Staron e svicolare i film mondani, mentre lei dice questo io penso fondamentalmente due cose, la prima è un pezzo che vorrei scrivere sulla bocciofila che si intitolerebbe Una domanda per Staron, anche nella versione in inglese A question for Staron, in cui parlo di come avrei voluto chiedere una cosa a Staron, su Dio, una domanda al regista polacco di Siberian Lesson, circa il principio di indeterminazione di Bohr, di cosa pensa di questa legge della fisica in relazione al suo fare documentario, se crede nella possibilità reale di dissolversi dietro la camera, se si crede forse Dio, in grado di vedere davvero, senza esser visto, e poi dopo aver fatto questa domanda in sala, in una sala semi deserta perché snobbata per altri film più di cartello, scusarmi immediatamente e dire solo che in verità avevo preso la parola e il microfono solo per ringraziarlo personalmente, a nome mio ed Ernestina, di come ci aveva fatto bene e come ci erano piaciuti i suoi film, questo avrei domandato e affermato, se solo la sera dell’ultimo film con Staron direttore della fotografia, Il premio, lui non fosse stato assente, già altrove, dalla sua famiglia in Polonia, pertanto la domanda sarebbe rimasta ipotetica, incompiuta abortita, e anche il pezzo sulla bocciofila solo un’idea scatologica dentro a un pezzo di costume, ecco, in quella piazza del venerdì con occhi lievemente arrossati (completamente) per le nostre ore davanti al tornio-schermo, io pensavo in parte a Staron e in parte alla contraddizione del Festival dei Popoli, alla sua vocazione da un lato pop alla sua necessità di essere “eventista”, di creare eventi così da richiamare il grande numero, e quindi proporre film che fossero di facile appeal, oltre a tutto un lato social/fotografico/video/logo/immaginifico ultra pop e a la page, che però andava a scontrarsi con un’essenza documentarista, antropologica refrattaria a questo, un mondo nerd, un mondo di nicchia, che del pop se ne frega, che il pop lo contempla, ma solo come aberrazione da studiare, da contemplare, qualcosa di fondamentalmente altro da sé, ecco io mi chiedevo quando sarebbe esploso in modo manifesto questa tensione tra le due anime del Festival dei popoli, questa tensione di vite che scavava dentro al cuore del Festival cittadino, ma forse era solo un modo per alienarmi e non pensare alla mia giornata di lavoro, al mio lunedì senza ponte, al fatto che un altro anno era precipitato su di me.
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