Essi Vivono ST02, ep04
di Michael Andreas (pseudonimo di Moise Leon Rutz)
L’altra notte nel letto orchidea ho fatto un sogno bellissimo. I tentacoli mandavano impulsi rossi che sentivo propagarsi attraverso i rami del sistema nervoso fino a raggiungere il mio cervello e avvolgerlo in una bolla estatica. Ondeggiavo, sospinto da quel leggero e costante dondolio, e mi sembrava di fluttuare accolto dalle spire di un fluido caldo, come un globulo di sangue in una vena.
Sono un grande fan di Saul Tenser. Non è solo il più grande artista del momento. È il più grande artista di tutto questo ammasso di corpi che chiamiamo umanità. Ormai che il dolore fisico è quasi un ricordo e che tutti si stanno passivamente abituando a veder mutare i propri organi interni per poi estrarli senza anestesia, ecco che Lui invece ha compreso il vero potenziale dietro questi cambiamenti. Sta ridefinendo i concetti stessi di arte, di sesso, di sublime.
È per questo che mi sono deciso ad aprire un mutuo per comprare il letto orchidea, lo stesso in cui dorme Saul durante il processo creativo, prima delle sue performance. Pare che lo aiuti con l’ispirazione. Io ci provo, giuro che ci metto del mio meglio, ma gli organi che tiro fuori io sembrano brutte caricature, imitazioni malriuscite. Insomma, cinesate in confronto alle stelle succulente e ai viscidi vermoni del Maestro. I miei tumorini, se così li posso chiamare, non sono più grandi di un palmo, e sono secchi, rattrappiti, dei brutti aborti deperiti, grigiastri e asimmetrici, senza nessun guizzo che li distingua uno dall’altro. Detto francamente, la cosa mi deprime.
E poi io non ho una stupenda assistente del livello di Caprice al mio fianco, una musa che diriga i bisturi su di me e inchiostri coi suoi aghi i miei reperti interni. Devo fare tutto da solo, quindi si perde ogni erotismo. La mia chirurgia più che sesso è una goffa masturbazione. Ai miei spettacoli vengono giusto un paio di segaioli che lo fanno appunto alla vecchia maniera, ancora con le cinque dita, e se intanto non si tagliassero neanche si arraperebbero, a vedermi lì, tutto sanguinante, che mi ravano in pancia, tiro fuori una pustola con su un brutto scarabocchio che non si può certo chiamare tatuaggio e cerco di cucire alla bell’e meglio con ago e filo. Già…perché io non ce l’ho quella meraviglia del modulo per autopsia Sark, il lettino operatorio controllato a distanza, con quel telecomando a forma di insetto luminoso. Quei bastardi della LifeFormWare mi hanno detto che non è più in commercio, fuori produzione, bastardi, mi hanno liquidato con l’offerta di un banale trapano elettrico e hanno fatto partire il loro jingle di merda.
Comunque, è probabile che dovrò abbandonare le mie aspirazioni artistiche. E tutto per colpa di Lang, lui e quelle candy bar del cazzo.
Non sono certo io a dover spiegare il disagio che comportano i pasti nella nostra epoca di mutazione. Immagina, tu sei lì che ti dimeni sulla tua sedia colazionista, l’ultimo modello biomeccanico degli ausili alla digestione LifeFormWare, cerchi di mandare giù un boccone e già fai una fatica tremenda perché quei bastardi della riparazione hanno fatto un lavoro di merda, insomma non saprei spiegare i dettagli ma gli ossicini dietro al collo non vibrano come dovrebbero, insomma si incastrano e poi danno questi colpi forti tutto d’un tratto, cioè una roba abominevole. E appunto, stamattina ero messo così, tutto storto e con la gola chiusa, l’esofago bloccato, cazzo una fatica per ingoiare un cucchiaino, più conati che altro, non so se mi spiego. E mentre sono in questa situazione, cosa vuoi che succeda, ovviamente suona il citofono. «‘Fanculo», mi alzo, sputo la merda che mi è rimasta in bocca e vado ad aprire. Lang, questo mio vicino che da qualche mese s’è messo in testa di fare la rivoluzione e balle varie, tipo che non dovremmo asportare i nuovi organi ma faremmo meglio a cambiare alimentazione, sì, uno di quei fanatici. E infatti parte con la propaganda, e mi dice: «tu sbagli ad andare contro il tuo corpo, accettati per come sei, stai cambiando, stiamo cambiando tutti, è l’evoluzione, la nuova umanità, il mondo rinato, la simbiosi con la tecnologia, possiamo mangiare i nostri rifiuti e ripulire il pianeta». Insomma, io ci provo a dirgli che non me ne frega nulla delle sue stronzate da anarchico pericoloso e per giunta econazista, lui e la sua comune di pazzi mangiaplastica, ci provo a dirgli che si sta montando la testa e che comunque le sue cose le può fare anche senza venire a rompere le palle al sottoscritto, tento pure di spiegargli il mio punto di vista, che voglio fare arte, esibirmi in spettacoli mozzafiato, aprirmi al pubblico ed esporre i miei gioielli interiori.
Ma quello niente, guarda la mia sedia e mi prende per il culo, ridacchia. Dice: «da quant’è che non mangi qualcosa tranquillo, senza scossoni?». Vabbè, ho capito dove voleva arrivare e ho accettato, pensavo che se ne avessi assaggiato un pezzettino mi avrebbe lasciato in pace. Così ho strappato l’involucro argentato e ho guardato quella barretta viola. Il colore era un po’ sospetto, «non sarà mica una roba da trappari che poi mi crea dipendenza?», gli ho chiesto. Il bugiardo mi ha detto: «mangia». E così l’ho morsa, oh se l’ho morsa, mi sembrava di masticare per la prima volta, sentivo la mascella che andava fluida, su e giù, trasformava quella delizia chimica in poltiglia che finalmente ero in grado di deglutire. E deglutii. Senza il minimo sforzo, sentii la plastica piovere nel mio stomaco, fluire tra i cavi nuovi del mio sistema digerente. I succhi gastrici sprizzavano di gioia come spumante appena stappato.
Devo dire che non mi lamento. Niente di politico dietro la mia scelta, no. Ho optato per la comodità, poter mangiare e dormire tranquillo, ho buttato la sedia ossea giù dalla finestra. Alla fine ho capito che stavo solo perdendo tempo, l’arte non è la mia strada. Penso che necessiti di un po’ di dolore per essere degna. E insomma, se non ti rimane neanche più il fastidio della digestione, come fai a produrre qualcosa di valido.
Non saprei se consigliare ad altri questo cambio di rotta. Posso solo assicurarvi una cosa. Non sembra eh, ma sono proprio buone, quelle barrette.
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