La cosa più complicata nella gestione del dolore, pensava disteso lungo e immobile nel letto n°51, è non cedere alla tentazione di dargli una forma. Ma quali alternative restano?, si domandava, e finiva per dare al proprio dolore la sembianze di un grosso volatile intrappolato in una teca di vetro, e i vetri della teca sono i confini dei nostri corpi straziati, così diceva a se stesso, i vetri sono le nostre pelli, pensava, e sono vetri troppo puliti perché l’uccello possa vederli e non sbattervi contro furiosamente.
E così sentiva questo grosso corvo, o cornacchia – il dolore non poteva essere altro che un corvo o una cornacchia, si diceva –, mentre continuava a sbattere contro quei vetri, sbatteva talmente forte che divampava. Lentamente il fumo riempie la teca come il micelio di un fungo si espande nella terra fradicia e scura di inizio estate, e il corvo da un momento all’altro sta bruciando; sta sbattendo e sanguinando, ed emette un sibilo, ma nessuno sente niente, nessuno lo può vedere, pensava lui, e poi grugniva voltandosi a osservare il compagno di stanza sdraiato nel letto n°52; lo vedeva a sua volta alle prese con una personale teca in fiamme e un uccello morente che impiegava troppo tempo per incenerirsi e scomparire.
Ci era cascato di nuovo, aveva pensato quella mattina, un corvo che brucia e sbatte in una teca è materia, gli aveva dato una forma e adesso gli toccava custodirla dentro di sé.
Volse lo sguardo alla finestra.
Fuori sorgeva un’alba invernale, aranciata e bluastra; gli ricordò un dipinto di Rothko, il No. 14, che se ne stava appeso in una grande sala del San Fransisco Museum of Modern Art, ma al centro di quell’alba, a dividere le due ampie masse di colore, si snodava un filo pallido dalle caldaie dell’ospedale, una tangenziale tremula di vapore che stava lì a dirgli che il mondo si sporca e si divide, che se avesse voluto godere della perfezione se ne sarebbe dovuto andare a San Francisco e avrebbe dovuto pagare il biglietto del Museum of Modern Art, un biglietto che costava trenta dollari, e, forse, avrebbe potuto a quel punto godere della perfezione in un ambiente che era stato creato per custodirla il più possibile intatta. Non è detto, aveva pensato, mentre l’infermiera era entrata nella penombra della stanza e gli aveva detto buongiorno, come andiamo stamani, e lui aveva digrignato i denti e risposto che insomma, che la notte era trascorsa non così male, ma che insomma, e l’infermiera di punto in bianco gli aveva domandato se avesse mai fatto una trasfusione.
Non aveva mai fatto una trasfusione.
Il medico gli aveva fatto firmare un foglio su cui vi era scritto che accettando avrebbe sollevato la struttura ospedaliera da qualunque tipo di responsabilità nel caso in cui avesse contratto l’HIV o l’epatite C; non accettando probabilmente sarebbe morto, e ne avrebbe avuta la responsabilità anche in quel caso.
Aveva firmato, bene, adesso facciamo la sacca, gli aveva detto il medico.
L’aveva chiamata sacca e lui si era immaginato una quantità spropositata di sangue; una sacca, nella sua mente, era larga e spessa, nera e profonda, e avrebbe contenuto almeno una trentina di litri di qualunque fluido. Così aveva bisogno di una sacca di sangue per non crepare, gli aveva detto il medico; non proprio in questi termini.
L’infermiera era entrata in quell’alba quasi perfetta; in mano teneva un piccolo sacchetto trasparente, dalle dimensioni di un foglio A4, riempito fino a poco più di metà: l’etichetta leggeva in grassetto 0 RH –; lo aveva appeso a uno dei quattro ganci dell’asta accanto al letto; poi aveva controllato la farfalla inserita nell’incavo del suo gomito e gli aveva detto che forse sarebbe stato meglio cambiarla, guardi in che stato è, ora ne mettiamo una nuova, gli aveva detto, come se fosse stata colpa sua, poi aveva preso la nuova farfalla dal cassetto del carrello dei medicinali, aveva fatto scorrere l’indice lungo l’avambraccio e aveva sorriso dicendo che era molto facile trovargli le vene. Lui si era guardato entrambe le braccia e le aveva viste livide, poi si era guardato il piede che spuntava dal lenzuolo bianco e lo aveva visto livido anch’esso, e anche giallastro, gli aveva ricordato il guscio di una noce. Sentiva le ossa del bacino che spuntavano dai lombi e premevano contro il letto. La gamba destra immobilizzata aveva al suo interno un corvo che continuava a sbattere furiosamente contro ogni muscolo, e s’incendiava, ma il sonno lo stuzzicava. Le sue palpebre si erano chiuse per qualche istante e gli era sembrato che vi fosse una giovane ragazza seduta di spalle accanto al suo letto. Gli era parso che stringesse qualcosa in mano; aveva scoperto che si trattava di un libro arrotolato, sulla copertina vi era un veliero, almeno era ciò che gli era parso di vedere, e non era riuscito a leggerne il titolo. La ragazza stringeva il libro e teneva il braccio disteso, e dal braccio un piccolo tubo raggiungeva il sacchetto appeso alla sua asta.
Riaprì gli occhi quando sentì l’ago morbido entrargli nella pelle. Si era domandato se il corvo finalmente sarebbe potuto uscire da quel foro, e poi aveva capito che no, che non era abbastanza, anzi, che probabilmente da lì sarebbe soltanto entrato un altro uccellino, un poco più piccolo, un pettirosso magari. Socchiuse nuovamente gli occhi e lo aspettò.
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