Lineas Entre dos Mundos
Cara Vilma Espin,
moglie di Raul Castro e forse tutte le altre cose che sei sono solo sedicenti, mi perdonerai se ti darò del tu. Ti scrivo per farti capire quale rovina sei stata per la mia vita:
Quando, nel 1962, hanno inaugurato il primo corso di etnografia a L’Avana, mi hanno insegnato che la ricerca antropologica applicata alla mia stessa cultura necessita di non tirarsi mai indietro di fronte a quella verità che l’analisi dei fenomeni sociali rivela. Il punto non è giudicare, piuttosto ascoltare. Possiamo metterci in ascolto senza giudicare? Se farlo con gli altri è facile, quanto è difficile farlo con noi stessi? Quando poi sono entrato all’ICAIC (Istituto Cubano del Arte e Industria Cinematograficos), mi hanno mostrato i film del neorealismo italiano, del formalismo russo, i documentari degli anni trenta. Impazzivo di gioia, ma la vera rivelazione l’ho avuta quando mi hanno fatto conoscere i registi della Rive Guache, due dei quali sono pure venuti qui a Cuba a insegnarci il loro cinema: all’ICAIC eravamo solo in due ad essere registi afrocubani, neri come nessun altro e per questo sia discriminati, sia usati come propaganda dal regime di Castro per far vedere quanto la rivoluzione fosse inclusiva, non lasciasse indietro nessuno, quanto fosse all’avanguardia, progressista e rivolta al futuro, quando poi in realtà, proprio in nome di questi principi, era la sinistra più retriva, tradizionalista, esclusivista e razzista che ci fosse, con l’unico problema che molti non se ne rendevano neppure conto: le persone sognano di stare al centro, di essere cosparsi di gloria, luminosi come un sole, gli vengono gli attacchi d’ansia quando si offuscano un po’, ma è proprio in questo processo che ne escono accecati: hanno introiettato così tanto il pensiero borghese bianco, che non riescono neppure a immaginare l’esistenza di qualcosa di diverso, per esempio uno sguardo antropologico, etnografico, sociologico, tanto per rimanere sul facile. Dunque due registi della Rive Gauche per due afrocubani: da una parte c’era Sara Gomez Yera, troppo rivoluzionaria, troppo femminista, troppo libera per quest’isola cubana che sta ai margini della storia, Sara Gomez che si innamorò del cinema di Agnes Varda e passò mesi con lei aiutandola a girare il suo documentario europeo, Salut les Cubains, apparendo alla fine della pellicola, Sara, mentre balla un gioioso, vitale cha cha cha. Dall’altra parte ci sono io, Nicolas Guillen Landrian, nipote del celebre poeta acclamato da tutti i cittadini cubani, che invece ero innamorato perso del cinema di Chris Marker, che ho seguito come un’ombra nel suo soggiorno alle Antille, nel Mar dei Sargassi, apprendendo ogni cosa dal suo stile contro il movimento, un cinema contro il movimento, riuscite a immaginarlo? Chris Marker mi ha insegnato a farlo. Mi ha detto: gioca col movimento, non esserne suo schiavo. Bloccalo, acceleralo, cristallizzalo, scioglilo, trasformalo, rendilo grafica, suono, musica, vuoi cubani siete musica, allora fai musica col movimento, i passi che diventano ritmo, le parole delle persone per la strada un accompagnamento, insomma tutto mischiato, occhio, tatto, orecchio, naso, lingua, tutti miscelati, tutto inaspettato, ma in nome del realismo, mi disse Chris Marker, mi raccomando, in nome del realismo.
Così, con questi principi che mi erano stati insegnati all’Università, all’ICAIC e da Chris Marker, ho iniziato a girare i miei primi cortometraggi, molti dei quali sono andati persi o, secondo fonti più accurate, distrutti col fine di cancellare il mio nome dalla storia cubana, perché, e l’ho capito a mie spese, quello che ti insegnano è quello che ti manderà in galera, magari con accuse ottuse, compiaciute, narcisiste come quella di essere “uno che litiga con tutti”, uno che alla fine litigherà con la persona sbagliata, in particolare con te, Vilma Espin, che sostieni di essere una critica cinematografica, ma in realtà sei solo un magistrato sotto false spoglie. Dobbiamo essere sinceri: all’umanità non interessa il pensiero, la discussione, il confronto, l’umanità vuole in un modo o nell’altro, più o meno esplicitamente, solo la conformazione.
Ma come fa un cubano nero a conformarsi a una rivoluzione bianca? Oppure: come può un artista di colore allinearsi all’insieme dei detentori del potere economico e politico, dei loro sostenitori, che in un paese vigilano sul mantenimento dell’ordine costituito e desiderano, bramano, sognano e in certi casi occupano un posto di rilievo nella vita sociale e culturale di questo paese? Ve lo dico io come fa: realizza film di propaganda, ma io, Nicolas Guillen Landrian, non sono quel tipo di persona.
Nel 1964 sono diventato il primo regista cubano e il primo regista nero a vincere un premio internazionale in Europa, al Krakow Film Festival, con il film a cui forse voglio più bene, En un bario viejo. Tutti i miei amici, compagni, colleghi mi facevano tantissimi complimenti, tutti tranne i capi, la polizia, i barbudos, piuttosto infastiditi dal fatto che nella mia pellicola non stessi elogiando i grandi risultati sociali e culturali ottenuti dal Lider Maximo, che è tuo cognato, Vilma Espin, il quale aveva gloriosamente vinto una guerra civile nel 1959, era sopravvissuto a un tentativo di invasione militare statunitense e a una crisi termonucleare, così buono che fumava i sigari migliori per noi. Però mi lasciarono in pace fino al 1968, quando in Coffea Arabiga montai un’immagine di Fidel accompagnato da The Fool on the Hill dei Beatles, sai, quella canzone che dice giorno dopo giorno solo su una collina l’uomo dal sorriso stupido resta perfettamente immobile e nessuno vuole conoscerlo. Venni arrestato due settimane dopo l’uscita del film con l’accusa di tentato complotto contro Castro. La prima domanda che mi fecero era dove avessi trovato la traccia della canzone, dato che la musica proveniente dai paesi capitalisti era assolutamente vietata. Non risposi. La cosa li fece arrabbiare ancora di più.
Passai diversi mesi in prigione, poi venni liberato, imprigionato di nuovo, liberato ancora, imprigionato ancora, così a ciclo continuo ogni volta che giravo un nuovo film. Mi ero incaponito coi miei principi e non volevo assolutamente fare arte di regime e neppure arte borghese, che a ben guardare è solo un regime diverso, è pur sempre una forma di allineamento. Volevo fare la mia arte, volevo dire quello che pensavo, sentirmi libero di discutere fino al litigio, che, se volete, è la più alta forma di libertà, ma a nessuno piacciono le persone che dicono le cose come stanno, ti preferiscono quando ti spertichi in elogi o stai zitto. In carcere mi picchiavano, mi facevano morire di fame e per otto volte cercarono di curare la mia malattia ideologica con le elettroconvulsioni. Se non ero capace di desiderarlo da solo, allora mi avrebbero conformato con la violenza. Passai venti anni nel puro inferno. Solo nel 1989 fui capace di salire su una barca e scappare in Florida, fu un viaggio terribile, in un mare infestato dagli squali. Non tutti raggiunsero le coste occidentali degli Stati Uniti. Cara Vilma Espin, mi ritrovai senza più alcuna voglia di girare un film, limitandomi a fare il mio lavoro come custode di un parcheggio in mezzo a bianchi ricchi che amano prendere il sole e scattarsi foto mentre sorseggiano un cocktail, tutti contenti, ridono, buttano la mancia per terra. Ogni tanto, la sera, dipingo. Quando ero giovane mi avevano insegnato ad ascoltare senza giudicare e per quanto mi piaccia l’idea di essere ancora capace di descrivere qualcosa, per esempio col pennello la sera dopo il lavoro, purtroppo adesso, dopotutto quello che ho passato, non riesco a evitare di giudicare. Forse è questa la lezione che ho appreso: osservare senza giudicare è impossibile. Forse è proprio questo il fine dell’arte, cara Vilma Espin, ovvero insegnarti a giudicare in modo corretto, ma persone come te non saranno mai comunque in grado di capirlo.
Questo racconto fa parte della rubrica Lineas Entre dos Mundos, percorso di avvicinamento all’edizione 2024 del festival Entre dos Mundos, dedicato al cinema iberoamericano, che si terrà a Firenze dal 19 al 21 settembre 2024.
Da giugno a settembre, ogni settimana, pubblicheremo un racconto ispirato a un film scritto, diretto, girato e prodotto in un paese dell’America Iberica.
Rispondi