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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Coco | Nel nome dei padri e delle madri

13 Marzo 2018 di Leonardo Biancanelli

La prima volta che lo vidi suonare fu a Milsum nel 2017; era seduto su uno sgabello al centro di uno dei prati più grandi del Loto Giarden – delle due distese d’erba separate da una roccia piatta e alta circa due metri e mezzo sulla quale si arrampicavano i bambini come gesto di coraggio fino a qualche tempo fa, era quella sulla destra che fu scelta da lui come palcoscenico, se così si può dire.

Ricordo la città semideserta; era il 2 novembre e gettando lo sguardo in qualche finestra potei intuire dove si trovasse la maggior parte delle persone. I televisori, o qualsiasi cosa a loro collegato, i televisori, dicevo, emanavano bagliori multicolori; getti di luce verde o viola o blu, e altre e più varie combinazioni, si disperdevano nell’aria pallida immediatamente prossima alle finestre. Sembravano – le finestre erano suddivise alle volte in quarti, oppure in ottavi, o in mezzi vetri – tanti piccoli varchi spaziotemporali attraverso cui qualcosa stava accadendo, sebbene accadesse ad altri e non a colui che passeggiava fuori, tra le strade, tra i muri. L’aria non era propriamente grigia, bensì lo era a tratti; il cielo era ben illuminato, ma vi era qualche nembo scuro che creava ombra; così era. Volti e corpi probabilmente stavano oltre i muri e i vetri, questo lo potei dedurre senza essere stato invitato a entrare in nessuna delle entrate che lasciavo alle mie spalle, diretto al Loto Giarden, dove chiunque avesse avuto il desiderio di riallinearsi con qualcosa, qualsiasi cosa si badi bene, avrebbe avuto una possibilità in più per riuscirvi. La faccenda del riallinearsi è delicata, ma l’avevo imparata quando avevo circa sedici anni, da un bambino.

Io non sto bene, disse quel bambino dopo che gli domandai se avesse bisogno di aiuto. Che vorrebbe dire non stai bene? chiesi allora, e quello rispose non sto bene, mi sento come se avessi le gambe da una parte e le braccia da un’altra. Non capisco, non mi fa male, continuò, eppure non sto bene. Così rispose. Era accucciato sotto la grande roccia piana al Loto Giarden. Aveva le guance piene e paonazze ed era robusto per la sua età. Credo, ora, che sarebbe senz’altro riuscito a salire sulla roccia; mentre quella volta pensai che aveva parlato in quel modo per via della propria incapacità, o qualcosa di simile, per una sorta di difficoltà evidente a riuscire in quel gesto di coraggio. Oggi non credo affatto fosse quella la questione; negli anni mi sono convinto che l’espressione del bambino derivasse da un senso di inadeguatezza che poco aveva a che fare con una difficoltà motoria o con un impaccio individuale. Gli domandai, dopo poco, dove fossero i suoi genitori. Non mi rispose. Allora mi sedetti accanto a lui e attesi in silenzio che qualcuno si facesse vivo e lo venisse a prendere. Vidi, quando arrivarono, i genitori piuttosto preoccupati che loro figlio, un bambino, parlasse con un sedicenne. Stimai che avesse un’età simile a dieci anni. Era probabile avesse soltanto dieci anni.

Il Loto Giarden offriva, allora come oggi, quell’opportunità ai suoi frequentatori, ed era un’ottima opportunità. Non erano molti i luoghi, o le situazioni, che avessero la capacità di indurre gli individui a osservare il corso della propria vita e a vedere con i propri occhi, con una certa chiarezza insomma, quando si è con due piedi su due binari che si separano tra di loro, o altre condizioni di disallineamento.

Io, dunque, lo ero anche quel 2 novembre?

Ebbene lo ero.

Il 2 novembre 2017 il Loto Giarden era semideserto tanto quanto la città. Un paio di senzatetto rimasero sdraiati sotto le panchine ricoperte con due strati di cartone plastificato e cartelloni pubblicitari. In realtà loro, anche, fui costretto a immaginarli, perché non fui in grado di vedere al di sotto degli strati di cartone colorato. Da pochi giorni il freddo aveva cominciato a invadere le strade di Milsum con la sua prepotenza.

Quel virtuoso abbracciava la sua chitarra come una fonte di calore, sembrava avesse tra le braccia, quasi infilato nello stomaco, un nucleo incandescente. Mi sedetti contro il tronco di un platano già quasi del tutto spoglio. Le foglie cadute, rossastre e marroni, giallognole, erano secche come la carta da forno ormai cotta quasi del tutto, ma il loro accumulo rendeva comoda la sosta. Il suono inizialmente era così flebile che mi domandai se stesse effettivamente pizzicando le corde, o se fosse il leggero filo di vento a scivolare tra i tasti e portarmi alle orecchie un suono quasi del tutto naturale, casuale. Ma non fu così: la chitarra era amplificata da una piccola cassa Eko, nascosta dietro lo sgabello che non si vedesse. Me lo disse infine, quando mi avvicinai per parlare, che quell’amplificatore glielo aveva venduto un mio connazionale. La chitarra era una Loper, non l’avevo mai sentita nominare prima, ma cristo.

Ogni volta che staccava le dita dai tasti, che glissava sulle corde, io, a occhi chiusi, vedevo una corona di colline, e un vecchio venirmi incontro lungo la strada; un vecchio con il pizzo bianco e le scarpe logore, di colore diverso tra loro, piene di mota, camminare in avanti, un po’ incurvato, in mezzo alla provinciale tortuosa su viaggiavano sparute automobili.

E poi il suonatore si richiudeva e respirava, e riattaccava come un fiume. Io allora vidi mia madre piangere sulla mia spalla, e non fu un ricordo che volevo tenere così vivido, ma non fui io a decidere. Poi scattarono le sue dita da un tasto a un altro; allora vidi la schiena di un uomo, e lo strinsi, nel vento e nel freddo.  

Quel suonatore, mi stupii il suo pulsare. E ad ogni corda pizzicata venivo assalito, letteralmente, da corrispondenze, dal suono delle foglie, dall’ansimare degli esseri umani, dal leggero incresparsi dell’acqua non drenata dalla terra, e del cielo rifflessovi sopra, in una pozzanghera oblunga nei pressi della spiaggia di Collignon, poi di un gabbiano che volava sbalzando a destra e sinistra e in alto e in basso verso l’Ile Pelée, il mare era in tempesta, e di una palma quasi del tutto piegata, poi di una foglia di rabarbaro sotto la quale mi nascosi molto tempo fa, e potei, grazie alla luce che vi filtrava attraverso, vederne la caratteristica fibrosità del gambo e i piccoli peli presenti sulle foglie, pensando che lì, come in ogni luogo, non mi sarei salvato dalle tenebre, ma neppure mi sarei risparmiato quella luce così intensa che rivelava le cose.  

Continuò a suonare. Stringeva la chitarra; ogni tanto lo guardavo perché desideravo capire come facesse. Mentre suonava, quasi aveva il capo capovolto, in modo che pareva guardarsi la mano sinistra dal basso verso l’alto, al contrario. L’altra mano ribolliva sulle corde. Più ribolliva più mi sembrava che i binari si riallineassero.

Miguel Rivera non arrivò a confidarmi la sua età; mi ringraziò per averlo ascoltato suonare, quel 2 novembre del 2017, nel prato grande del Loto Giarden. Io ringraziai lui, per aver suonato in un modo simile, e gli strinsi la mano, quando poi tornai verso casa.

Non sapevo che l’avrei incontrato più volte, nel corso della mia vita, e tornai a casa ancora osservando i vetri caleidoscopici delle finestre. Pensai alla difficoltà di comunicare il grado d’intensità delle faccende che, nel bene o nel male, rendono gli individui tali. Tuttavia, pensai inoltre, ogni tanto qualcosa sbriciola quella barriera, e ri-allinea lo scarto.

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Postato in: La scena tagliata, La sindrome del personaggio secondario Tag: Caleidoscopi, Chitarrista, Coco, leonardo biancanelli, Loto Giarden, Miguel RIvera Fai un commento

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