Seduto in macchina sul sedile del passeggero, o sul sedile posteriore dietro a mio padre o mia madre, da bambino vedevo le porzioni di mondo dentro i cinquanta centimetri quadrati di vetro temperato ibridarsi tra loro per la velocità del mio punto di vista; tali porzioni di mondo racchiudevano al loro interno avventure che accendevano la mia curiosità anche se ero io stesso quello che le aveva inventate.
Quelle avventure non me le sarei mai più ricordate.
Adesso, mentre stringo il volante, guardo fuori a lato dell’auto: posso farlo soltanto per brevi istanti prima di tornare con lo sguardo sulle linee bianche tratteggiate e continue e su tutti gli elementi da osservare e sorvegliare per non creare un ammasso di lamiere suppurante dolore e lutto.
Accanto a me non vedo granché di avventura. Vedo un falco appollaiato sul palo della rete di un campo coltivato a erba medica. Un tempo ci avrei gareggiato in velocità e lo avrei seguito per ore; un tempo quel falco avrebbe forse potuto essere il mio migliore amico?
Torno a guardare di fronte e abbandono il falco a se stesso; vedo la strada che scorre parallela alle linee bianche, scandita da numeri romani e arabi in piccoli quadrati bianchi, una levigatrice a nastro bituminoso che con scaglie catarifrangenti arancioni, bianche, rosse, mi sgretola la riserva di tempo e fantasia.
Quando ero bambino non avrei mai pensato che il tempo mi sarebbe mancato e che la fantasia me la sarei dovuta tenere stretta, che più che tracciare avventure avrei dovuto impegnarmi a memorizzarle. Pensavo che qualcosa sarebbe rimasto, oppure che qualcuno mi avrebbe aiutato, rivelandomi un trucco su come ritrovare tutto ciò che era accaduto nel passato, per sollevare la chiusa che aprisse la diga della memoria.
Tra venti minuti, ormai, dovrei arrivare alla chiesa e mi piacerebbe avere più tempo. Vorrei arrivare a sedermi su un desco con almeno un ricordo preciso del defunto. Ma mi rendo conto che venti minuti non sono abbastanza. Venti minuti sono uno sputo marcio schizzato in uno stagno: non fa altro che increspare l’acqua e aggiungere bollicine di saliva a uno strato di polveri e muffe che non lasciano intravedere niente di quello che si nasconde al loro interno. C’è qualcosa di completo là sotto, un’idea che oltre a prendere vita si forma ed emerge chi sa quando e chi sa come. Non bastano venti minuti per vederla, figuriamoci per afferrarla. Lo stesso vale per un ricordo soddisfacente, un ricordo che abbia un inizio e una fine. Avrei avuto bisogno di un mentore nella mia vita, un portatore di ricordi di cui appropriarmi. Mi sforzo di ricercarne uno nella mia memoria, prima di andare a porgergli l’ultimo saluto e mi restano – quanti, adesso quindici forse? – mi restano quindici minuti per dargli una forma e poterlo piangere seduto sul legno laccato di una chiesa di paese. È evidente che quando si perde tempo, non lo si perde soltanto nel passato, lo si perde anche nel futuro.
Avvio la sua ultima clip per ascoltarne almeno la voce:
«Ti senti solo?
Cosa pensi del futuro, come ti immagini che sarà?
Cosa rimarrà con te e cosa ti dimenticherai?
Come cambierà la natura?
Cosa ti rende fel… »
Parcheggio.
Spengo la macchina ed entro in chiesa dove mi circondano alcuni volti già conosciuti, altri mai visti prima. Le persone sembrano gravate da un pesante alone invisibile che gli incurva leggermente le schiene. La bara è chiusa, orizzontale ai piedi dell’altare. Percorro la navata centrale della piccola chiesa romanica tozza e affatto alta e mi siedo in una delle prime file, in uno dei posti esterni, vicino al muro di pietra. Lì, anche io leggermente incurvato come tutti gli altri, mi stringo le mani, e le sento sudate. Provo un leggero ribrezzo, come se il sudore delle mani fosse conseguenza di paura. Non so, più codardia che paura. Mi torna alla mente un passo del romanzo nel romanzo di Bulgakov in cui Ponzio Pilato legge nelle carte di Levi Matteo che il peggiore dei mali dell’uomo è la codardia. Così mi rendo conto di aver vilmente ignorato la lezione che l’uomo che giace all’interno della bara ha cercato di insegnarmi da quando l’ho conosciuto: non sono ormai in grado di afferrare le cose, di coglierne l’ampiezza, di vederne l’inizio e la fine. Avrei dovuto espormi, ricucire gli strappi del tempo che sbrindellano i ricordi servendomi delle corrispondenze tra di loro come filo da sutura, per farne almeno uno, un ricordo solido su cui poter contare. Invece non posso ricordare. Non c’è più alcun trucco che io possa imparare.
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