Ho sempre pensato che le città più belle fossero quelle in cui ognuno vive il proprio film. Non mi è mai passato per l’anticamera del cervello che questa potesse essere una cosa negativa, e nemmeno T. all’inizio è riuscita a convincermi.
Io e T. siamo diventate amiche a Parigi quando avevamo appena diciotto anni. Quando lei dovette tornare a New York, non sapevamo cosa ci sarebbe successo dopo o quando ci saremmo riviste, ma io le giurai che prima o poi l’avrei raggiunta. Adesso T. ha quattro lavori, tra i quali la modella e l’organizzatrice di serate super cool nei bar di Brooklyn. Alle sue feste tutti ballano sempre e si fumano canne grandi come sigari. Prima T. lavorava come guardia nei grattacieli, ma dopo che un tipo si è buttato di sotto di fronte a lei ha deciso che era il momento di cambiare aria. Anche per questo si trasferirà nel Queens a breve, vicino alla spiaggia, con il suo fidanzato e i suoi amici surfisti. Li non ci sono grattacieli per fortuna, ma tante casette a schiera fatiscenti incoronate da bandiere americane eccessivamente grandi sulle facciate. Siamo nel suo appartamento di Brooklyn e T. mi sta cucinando i platani fritti. Quando T. parla è bella e teatrale, muove il mestolo per scandire le frasi e sbatte i cassetti alla fine di un discorso. “Sei arrivata da poco, ma capirai presto che tutti in questa citta vivono il proprio ridicolo film personale. è per questo che sono tutti egoisti” dice. Poi si gira a guardarmi e le spunta un sorriso sagace, perché chissà che espressione ho in quel momento.
“Sono diventata egoista?” penso pigramente mentre cammino tra gli skylines di Midtown, che d’estate riflettono la luce generando infiniti soli artificiali. Ripenso a quello che mi ha detto la mia amica attrice D. versandomi shot di tequila liscia su una terrazza dell’Upper East Side, così tanti e così in alto che avevo le vertigini: “in questa città si impara a scegliere, devi farlo in un posto in cui c’è qualsiasi cosa. Anche per questa ragione la gente è estrema in tutto, se tentenni ti perdi. Vuoi un ghiacciolo?”.
In effetti c’è troppo di tutto qui. Ci sono troppi McDonald, troppe scale, troppe facce, troppi culi, troppi, veramente troppi soldi. Nel film che ho scelto di vivere qui è sempre festa, e io non ci capisco niente. Non capire niente è conveniente, e non è difficile trovare feste di questi tempi. Sembra che più tragedie avvengano, più ci siano possibilità di divertirsi. Ogni poco infatti, avviene qualcosa di orribile, in città o in America, e il turbine delle feste sembra riprendere sempre più forte. Ci distraiamo, e tutto intorno a noi ci invita a farlo.
Se ti lasci andare puoi finire ovunque.
Bushwick è la tana dei bimbi sperduti, hanno i vestiti macchiati e i capelli color arcobaleno. Mi ci reco per concerti punk in locali dai nomi evocativi come Heaven or Las Vegas. Il mio amico J. vive nell’epicentro di questo disastro, in un appartamento pieno dei suoi quadri, sotto la ferrovia. Ogni poco smettiamo di parlare perché’ il rumore del treno è troppo forte. Ci ho conosciuto una persona di nome Mercury che parlava di sé al plurale: “pensiamo che sia importante occupare quello spazio, e crearci un orto per la comunità”. A Manhattan invece ci sono Il Russian Samovar, dove una sera ho visto un modello scoppiare in lacrime, e Ciao Bella, un ristorante a Little Italy che per qualche ragione è anche un locale. Un po’ di tempo fa ci sono andata per il lancio di un magazine che parla della vita Downtown. Non ho fatto in tempo a prenderne una copia ma ne ho trovato uno per terra in bagno e il titolo era “Our Life is a Movie”. È stato un fugacissimo attimo di lucidità in cui le parole di T. hanno acquisito un senso nuovo, poi sono tornata a ballare. Qualche giorno fa io e A. siamo andate a Coney Island per una festa reggae sulla spiaggia. Quando hai fumato tanto, il sole sulla fronte e il suono caldo e ruvido dei vinili sono il paradiso. La mia amica mi propone di prendere i funghetti e di andare a vedere Top Gun 2 con dei suoi amici al cinema in cui lavora, il Nighthawke. “E l’ultima cosa che farei adesso. Perché’ vuoi vivere un incubo mentre stiamo vivendo un sogno?” le chiedo. Lei fa spallucce e si lancia i funghi in bocca come se fossero poc corn. Durante la proiezione le chiedo spesso come va, per assicurarmi che non si stia intrippando troppo, ma lei sembra stare benissimo, quindi mi rilasso.
Top Gun 2 contiene più omosessualità repressa del primo se possibile. Tutto è perfetto. Gli uomini hanno il petto lucido quanto gli aerei che guidano e i denti di Jennifer Connelly sono spaventosamente bianchi. C’è così tanto orgoglio americano da mettermi in imbarazzo. Sono stati intelligenti, perché il nemico nel film non ha né nome né bandiera. Li chiamano asetticamente “i nemici” ma secondo tutti noi erano i russi. Solo azione pura e pulita, il sangue è occultato. Mentre guardavamo il film abbiamo ordinato la cena, perché’ il Nighthawke e un cinema fancy e ogni poltroncina ha un tavolino incastonato, dettaglio che mi ha reso più graditi sia il film che l’America in generale. Comunque questo non è il film in cui vivo io e mi inquieta pensare di essere circondata da tante persone per le quali Top Gun è un paradigma.
Cammino tra gli skylines e i loro mille fuochi e mi lascio scomparire. È un festoso pomeriggio di giugno e sto andando all’IFC cinema per vedere Pink Flamingos di John Waters per conto mio bevendo uno smoothie alla banana, droga ben peggiore di altre menzionate in questo racconto. Per strada oggi niente è troppo in modo brutto, c’è soltanto un’abbondanza gioiosa di persone rasserenate dall’arrivo dell’estate, come ce ne sono ovunque. Guardo Pink Flamingos e penso che forse John Waters non esisterebbe se non ci fosse Top Gun. Che anche nel male nasce il bene. Che nel bene prospera il male. Che a mali estremi estremi rimedi. Mi chiedo se ho scelto di vivere il film giusto. Mi sembra di si. Mi ricordo che nel mio film io non capisco niente e tornando tra i miei grattacieli, smetto di pensare.
Come sempre ci porti con te ovunque tu vada , mi piace questa descrizione di new York che non conosco ma hai colto esattamente quello che ho sempre immaginato….
Qui c’è tutto il sapore di NY a venticinque anni, vabbè solo se hai venticinque anni e una bella testa.