La prima scena di Carol è una citazione. Il film citato è Breve incontro di David Lean (1945), uno dei migliori film inglesi di sempre. Nell’ultima scena di questo film un uomo e una donna stanno per dirsi addio (ma si amano ancora) al tavolo del bar della stazione – per tutto il film i due si sono incontrati casualmente finendo per innamorarsi, ma qualcosa ha sempre frenato la nascita di un vero rapporto. L’uomo non fa in tempo a dire “abbiamo ancora qualche minuto” che un’altra donna riconosce nella palpitante protagonista una sua amica e si unisce al tavolo in modo brusco cominciando a chiacchierare del più e del meno. Allora l’uomo, all’annuncio del suo treno, si alza e se ne va salutando l’amata senza un bacio o un abbraccio, come se salutasse chiunque altro: solo le mette la mano sulla spalla, lasciandocela qualche secondo di più. Non si rivedranno mai più?
È così che ha inizio anche il film di Todd Haynes, laureato in semiotica e regista – fra gli altri – di Poison, di Velvet Goldmine e di Io non sono qui.
Nel libro Le buone maniere Molly Keane racconta come le conversazioni formali uccidano le persone – o quantomeno i loro slanci. Lo sanno bene Carol Aird, donna elegante e fascinosa alle prese col naufragio del suo matrimonio, e Therese Belivet, commessa diciannovenne appassionata di fotografia e sicura soltanto della sua insicurezza. Le due iniziano a frequentarsi quando Carol dimentica i guanti sul bancone dei grandi magazzini. Come dice Nabokov: “il guanto perduto è lieto”.
Ma è al trenino che Therese consiglia a Carol di comprare come regalo di Natale per la figlia che Patricia Highsmith, l’autrice del libro da cui è tratto il film, affida la carica simbolica della storia. Il cosiddetto perbenismo borghese è più che mai asfissiante nella New York postbellica resa rarefatta e opaca dalla fotografia di Lachmann. Le rivolte studentesche, le lotte per i diritti, il primo gay pride della storia: tutto questo non è mai avvenuto. E se lo scandalo di una storia del genere non può essere così manifesto oggi come lo è stato nel ’52, anno di uscita del libro (scritto sotto pseudonimo), ecco allora che la rilettura cinematografica si addentra nell’intimità e nel calore dei due corpi, dai primi stentati approcci fino ad un viaggio che le porterà, attraverso varie tappe, a Waterloo, Iowa (sic).
I caratteri delle due protagoniste vengono traditi dai piccoli gesti – gli occhi distolti, un tremolio delle labbra, un sorriso appena abbozzato – e dalle micro debolezze dell’intimità che si fanno via via forza e determinazione, ad alimentare quegli slanci di cui sopra.
Per Carol il trenino giocattolo che calca gli stessi binari e lo stesso percorso all’infinito non è soltanto il conformismo culturale che la circonda ma una caratteristica individuale profonda, una sorta di peccato originale.
«Sai quello che fai?»
«Non l’ho mai saputo».
“Coazione a ripetere: tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze”.
Solo l’amore – ça va sans dire – permette di deragliare. E l’anticonformismo di Carol, nascosto sotto i guanti e le unghie perfettamente smaltate, sta tutto qui.
Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi \ la locomotiva ha la strada segnata \ il bufalo può scartare di lato \ e cadere. (F. De Gregori)
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