di Carlo Benedetti
Finalmente sei un’insegnante. Ci sono stati momenti, non più tardi di qualche mese fa, in cui non ci credevi più. L’abilitazione, la terza fascia, le preferenze di istituto, tutto sembrava remare contro. Eppure ecco un registro, il verde dei banchi, la graniglia per terra. Quando ti sei svegliata stamattina eri innamorata, felice di bere un caffè con lei. Ti ha fatto trovare una rosa rossa sul tavolo e sulla porta, prima di baciarti piano, ha detto “Sembri proprio una professoressa”. E, dio mio, per una volta era vero. Non una supplente, non una tirocinante, ma una professoressa. Allora sei corsa e l’hai baciata di nuovo, sulla soglia, senza pensarci.
Continui a rimuginarci anche ora mentre tiri fuori dalla borsa l’antologia e una penna, magari blu, ne hai sempre a decine e proprio stamani si nascondono. Dalla prima file senti l’esercizio corale del giudicare che si mette in moto, rapidissimo. Se sbagli adesso, addio alla classe. Ti fermi e li guardi uno ad uno negli occhi. Il silenzio vibra. Fai un bel respiro e sorridi il tuo sorriso migliore.
Non ti ripeti che dall’appartamento di fronte si è sentito un clic stamani, ne sei sicura. Un otturatore che si chiude e si apre. Oppure un cellulare che imita il suono di un otturatore. Di sicuro una foto. Ma vi stavate abbracciando? Poteva essere un bacio fra amiche? Eppure lo sapevi, l’avevi visto l’adesivo sul campanello con i maschietti celesti e le femminucce rosa. L’hai letto l’opuscolo del ministero, la pubblicità con i bambini spaventati. Sono mesi che non le tieni la mano per strada e litighi con tutti perché non vuoi finire in un centro di recupero, perché non te ne frega niente dell’impegno civile e della lotta.
Non ti accorgi che la prima ora scivola via. I ragazzi sono ancora svegli e sembrano convinti. Dante prima della Commedia, l’amor cortese, quanto ancora ti sembra bello dopo tutti questi anni. Prendi il telefono e non ci sono notifiche. I colleghi si presentano in sala professori, sono tutti gentili, non conosci nessuno. Vorresti crederci. Anche il preside sembra tranquillo, non porta spille sulla giacca e fino a qualche anno fa insegnava italiano. Parlate a lungo di quanto sia bello e difficile spiegare perché la letteratura è importante.
Prendi un autobus per tornare a casa. Una signora, ben vestita, con uno splendido foulard giallo al collo, si mette a urlare contro un operaio che puzza di sudore. La rabbia le esce d’improvviso, una fiamma che alza il braccio per schiaffeggiare l’uomo senegalese. Lui scende alla fermata seguente e tutto l’autobus ride. Ridi anche tu. Cosa avrei potuto fare, pensi. Ti guardi intorno e c’è una tale complicità, una liberatoria fame di stare dalla stessa parte, tutti uguali.
Quando arrivi sul ballatoio senti una porta richiudersi. Nell’androne ti sei accorta che ci sono due adesivi adesso. L’unico citofono senza è il vostro. Il corridoio è buio e non si muove nulla, le mattonelle sono lucide, dalla finestra neanche un filo di vento.
Rispondi