Questa è l’immagine. Un uomo girato di spalle, di fronte a una foresta imponente. La foresta è un muro di vegetazione al cui interno si possono riconoscere bassi cespugli spinosi, vertiginosi pini marittimi intrecciati ai loro cugini domestici e le mortifere e imponenti fioriture delle agavi. A connettere i vari livelli, fogliami del diametro di ombrelli aperti, arbusti secchi, liane e poi ancora alberi appartenenti a specie senza nome, che si innalzano da uno spesso tappeto di aghi su cui insetti dalle mandibole instancabili erigono senza tregua i loro formicai.
I singoli elementi sono a tal punto incastrati l’uno nell’altro da trasformarsi in un’entità compatta che respira dilatandosi e ritraendosi al vento di metà luglio. Unica via d’ingresso, una sottile feritoia scura attraversata da un sentiero di ghiaia. L’uomo è in piedi sull’ultimo tratto del sentiero ancora esposto al sole. Si appoggia a una bicicletta grigia, con una scatola di cartone montata sul portapacchi. Indossa una canottiera bianca, pantaloncini da mare e delle ciabatte di gomma, i capelli bianchi sulla nuca e la pelle cascante delle braccia suggeriscono un’età avanzata. Rimane lì, con la testa inclinata all’indietro, guardando in alto dove finiscono gli alberi. Poi monta in sella, e mentre le cicale urlano in un attimo scompare nel buio.
O forse non è andata proprio così, ma chi può dirlo.
Un’altra immagine. Una scatola di cartone mangiata dall’umido, appoggiata accanto a una bicicletta grigia, appoggiata sul muretto di cinta cementizio di uno striminzito giardinetto falciato dalla canicola. Nella scatola, piccoli semi protetti da un guscio duro. Mia madre si dà un gran da fare per spaccare il rivestimento esterno con un sasso ed estrarne il contenuto, bianco e sottile come un’unghia. Mi dice: fai piano, non fare rumore che il nonno è stanco e sta riposando. Poi ricomincia a spaccare i semi col sasso. Hai visto quanti ne ha portati questa volta? Dovrebbero bastare fino all’estate prossima se li conserviamo bene. E giù a battere. Con il nonno non ci avevo mai parlato, perché durante l’anno non veniva mai a trovarci e ci raggiungeva solo qualche settimana d’estate, nella casa al mare. A tavola teneva lo sguardo fisso sul televisore, e subito dopo mangiato usciva con la bici. La mattina si alzava prestissimo, la sera andava a letto per primo, e a dirla tutta mi ci è voluto del tempo prima di capire se si trattasse del nonno materno o paterno, perché in dieci anni di villeggiature non avevo mai sentito nessuno chiamarlo papà. A cavallo della sua bicicletta senza catena, senza campanello e senza cavalletto, all’ora di colazione veniva inghiottito dalla cosa più vicina alla giungla che avessi mai visto, per procurarci piccoli semi a forma di unghia che ci avrebbero sfamati durante la stagione fredda. Ne usciva in tempo per la sigla del telegiornale della sera, sporco e stanco, impassibile.
E poi. Un giorno qualsiasi, al ritorno dalla spiaggia, mia madre sui gradini della veranda armata di un panino con la frittata. Mentre mangio dice, è successa una cosa al nonno, quando era fuori con la bici. Non si sa bene come, ma è caduto e ha battuto la testa. L’ha battuta molto, molto forte. L’hanno trovato dei ragazzini che giravano in pineta, hanno fatto una chiamata anonima da una cabina e poi sono scappati. Siamo andati subito all’ospedale, ma non c’è stato molto da fare. I medici però, ci hanno detto che non ha sentito male. I vicini sono andati a riprendere la bici, ma il manubrio si è tutto piegato per la botta, la forcella si è spaccata. Non valeva la pena neanche provare a ripararla e alla fine l’hanno lasciata lì.
La sera, dopo un pomeriggio di telefonate sottovoce, andiamo al cinema. Un ufficiale russo attraversa l’Atlantico con un sottomarino, per consegnare agli americani certi segreti militari. E se affonda? dice qualcuno dalle file dietro. L’oceano è uno spazio vuoto e grigio, senza pesci, senza alghe, dove rimbomba il suono dei sonar. Forse meglio allora cadere in pineta, sbattere la testa e via, mentre i gatti randagi razzolano tra i cespugli e i pedali girano a vuoto nell’aria.
Il giorno dopo vado a cercare la bicicletta. La trovo appoggiata a un albero, un po’ defilata dal sentiero. Nel copertone della ruota posteriore ci sono diversi cocci di vetro che l’hanno sgonfiato quasi del tutto. Dentro la scatola di cartone ancora sul portapacchi, una ciabatta solitaria. Niente sangue, forse ripulito dagli animali.
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