di Lavinia Ferrone
È stato durante una sera di novembre, di quelle afose.
Sono andata al cinema e mi sono resa conto che è come andare al mare.
Andare al cinema è in grado di suscitare tutti quei fastidi che si provano nei confronti del genere umano. Quelle piccolerìe, inezie, in grado però di scatenare stridente disappunto, tale da impedire la completa focalizzazione su ciò che si è andati a vedere.
Prima tra tutti, la ricerca del posto, il proprio. Siccome ognuno degli stanti in sala ha poggiato cappotti e giacche sui sedili della fila, la tua unica chance è metterti seduto all’estrema destra della sala, e rassegnarti a guardare il film con la coda dell’occhio, poco male, mi dico. La ricerca del posto, altrui. I ritardatari si fermeranno in piedi davanti a te a film iniziato, facendo un po’ il gesto di chinarsi, ma è evidente che anche chinandosi rimarranno comunque ad un’altezza tale da impedirti la visione delle prime scene del film. Questa prima fase, penso, la trovo facilmente correlabile alla ricerca del punto dove infilare l’ombrellone delle tante e numerose famiglie che popolano le spiagge in agosto.
Appena messi a sedere, gli spettatori ritardatari, sono soliti commentare con la finta bassa voce, come quella che usano gli attori in scena quando fingono di parlare a bassa voce ma, necessariamente, urlano. E così, come spesso succede quando vai a vedere un film all’Odeon, senti domandare: ‘Ma che film è questo?’ ‘Ah ma allora forse lo avevo già visto un po’ a pezzi ma comunque non me lo ricordo’. Qui vi è una netta correlazione con i fastidiosi-in-quanto-tale vicini di ombrellone nel momento in cui prendono possesso della loro strategica postazione balneare, strategica perché, essendosi piantati esattamente di fronte a te ma dieci centimetri più avanti, sono con i piedi sul bagnasciuga.
Dopo qualche minuto inizia lo scartoccìo del Kinder Bueno con lancio della plastica a terra, e sticazzi, aggiungerei. Si sta come le cartacce tra le poltroncine dei cinema i mozziconi nella sabbia.
C’è poi un’altra fase che definirei come ‘la fase morta’. Mi viene in mente che è l’equivalente del subito-dopo-pranzo sul mare. Durante la quale non si sente parlare, nessuno si muove, pensi che siano assorti nella visione del film ma è probabile che stiano dormendo.
Quando si scavalla l’ora, inizia a fare capolino il ginocchio di quello dietro di te, che preme sul tuo schienale. Chiaro sintomo di sofferenza fisica da prolungata costrizione. La ragazza accanto, che era riuscita fino a quel momento a tenere la testa poggiata tra indice e pollice, inizia a tossire e respirare forte. Il nervosismo è palpabile.
Dopo una mezz’ora di fermento sotterraneo il film finisce nell’irrequietezza e spazientimento generale.
Quelli ganzi rimangono seduti fingendo di leggere con interesse e competenza i titoli di coda. A questa categoria apparterrei anche io, se non fosse che quella davanti a me si è alzata, rimanendo piantata in piedi a sistemarsi i capelli dicendo al suo fidanzato delle cose come: ‘No va bhe, cioè sembrava un documentario di Rai Arte’ lui ‘Sky Arte’ lei ‘No ti ho detto Rai Arte’ lui ‘Sì ma secondo me sembrava più Sky Arte’ lei ‘Ho detto Rai Arte, smettila’ lui ‘Che importa tanto alla fine comunque no’.
Non so bene per quale motivo, io, rimango seduta un po’, anche dopo che sono finiti i titoli di coda. Questo mi consente di ascoltare i commenti che, a questo punto, mi sento di equiparare a quelli di quei tizi che, quando ormai il sole è calato, tirano fuori seggiolina pieghevole e canna da pesca millantando grande esperienza nel settore ittico, dopo decenni di pesca su tutti i bagnasciuga delle coste toscane, da Donoratico a San Vincenzo.
“Il film un po’ lento, però la fotografia incredibile”.
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