Uscirà a febbraio negli USA l’ultimo film dei Coen, Ave Cesare, dove si parla della realizzazione di un film e di una serie d’intricate vicende che accadono dietro le quinte. Di mondo della produzione e dietro le quinte i Coen si sono già occupati nel loro quarto film, Barton Fink. Scritto in estasi d’ispirazione in sole tre settimane – un film sul blocco dello scrittore – Barton Fink decolla poi verso altri lidi e possibilità (come spesso accade nei film del duo americano) offrendo l’interessante accoppiata scrittore\serial killer, entrambi mossi dalla stessa compassione per il prossimo e ispirati nei loro atti dalla stessa volontà di alleviare la pena altrui.
Il tentativo estremo è per i due quello di far combaciare la mente e il mondo, la mappa e il territorio. Barton è alla costante ricerca di una letteratura vera, definita come quella cosa che parla delle persone vere e dei loro veri problemi – descrivere il mondo così com’è, esattamente così com’è. Non dovrebbe esserci cosa più facile e invece niente è così arduo. Questo perché la mente mente, in continuazione, ed è necessario allora che diventi lieve come la carta velina, cosicché si possa ricalcare ciò che traspare da sotto.
D’altro canto il serial killer compie la sua ultima performance\carneficina al grido di: Vi mostrerò la vita della mente!
Solo piegando le cose secondo i suoi canoni interni, Charlie Meadows aka Karl Mundt riesce infine a orientarsi. In effetti si trova perfettamente a suo agio nel conversare in un hotel che brucia dantescamente, né Fink sembra meno folle di lui – in tutti i film dei Coen la follia è un gene condiviso.
Introiettare il mondo per renderlo reale, proiettare la mente per renderla reale. Presi da soli – la mente, il mondo – sono entrambi privi di significato, come la pastafrolla e il cacao dei baiocchi.
Nella scena finale Fink fluttua verso la spiaggia, trovandosi immerso nel quadro che giorno dopo giorno ha avuto davanti nella camera d’albergo in cui ha scritto il suo capolavoro. La ragazza che si stende davanti a lui è identica a quella del quadro, e così la sua posizione, la spiaggia, il mare. Un uccello cade morto nell’acqua. Fine.
Dice Nabokov in Fuoco Pallido: una volta che le avrai trasformate in poesia le cose saranno vere, e le persone avranno vita.
“Io sono uno scrittore! Io creo! Sono un creativo, sono un creatore! (indicandosi la testa) È qui la mia uniforme!”
Barton è dovuto passare da situazioni ambigue e personaggi altrettanto oscuri. Ha dovuto confrontarsi con il suo maestro teorico fino a riuscire ad ucciderlo (indirettamente, metaforicamente) per tramite della persona più vera che ha finora conosciuto: un omicida.
Voglio infatti pensare che nella scatola che Barton si porta dietro nell’ultima scena, scatola di cui solo sospetta il contenuto, s’imputridisca la testa di William Faulkner – il personaggio di Mayhew è apertamente ispirato a lui, alla sua esperienza col cinema e al suo alcolismo, e stando ai giornali è l’ultimo a morire e ad essere decapitato per mano del killer.
I Coen delineano così una deliziosa definizione di scrittore: un disadattato dalle amicizie discutibili – amante delle allitterazioni – che rimane incastrato fra reale e rappresentato.
E con un pessimo taglio di capelli.
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