di Aquiles José Martínez Pérez
Sei gatti aspettano Jacinta affacciati alla finestra. Non la vedono da quando lei li chiuse dentro casa e scese lungo il sentiero che porta ad Agaete.
Partì con l’alba Jacinta, dopo il boato lontano del volador, quando il terreno grigio profumava ancora di rugiada. Per portare la rama alla Virgen de Las Nieves partì. Vestita di bianco, con un mazzo di eucalipto in mano e una preghiera tra le labbra rosse:
«Virgencita mia» disse Jacinta sulla soglia di casa, con gli occhi al cielo e una mano appoggiata sul petto formoso, «mandami un uomo buono». Poi chiuse la porticina blu e attraversò il giardino spoglio, delimitato da un muretto a secco, dal quale, ogni giorno, cadevano un paio di sassi.
Li raccolse da terra Jacinta e li rimise sul muro. Poi si voltò e guardò la sua casetta imbiancata a calce, sotto l’ombra di una palma, con la finestra chiusa e i gatti dietro il vetro che iniziavano a miagolare.
«Torno stasera!» urlò Jacinta spazientita. Ma loro non smisero e lei si avviò con passi rabbiosi sul sentiero, sollevando l’orlo del vestito perché le spine dei cactus non glielo rovinassero, lasciandosi alle spalle una nuvola grigia e, dietro questa, il giardino, la palma, la casa e i gatti.
Fissi su Agaete aveva gli occhi Jacinta, su quella macchiolina bianca alla fine del percorso, dove le colline brulle, grigie e marroni si fanno scogliera e incontrano l’oceano col suo mormorio. Per un’ora sentì i propri passi croccare sul sentiero, e la macchiolina si fece grande, e prima si udirono i latrati dei cani e poi una confusione che riempiva l’aria. Accelerò il passo Jacinta, giù per il sentiero, come fosse una bambina, e in un attimo fu in paese.
Era tutto una festa Agaete: le finestre azzurre aperte, le strade ornate da bandierine multicolori. Piene di gente erano le strade di Agaete. E, anche se mancavano ancora un paio d’ore all’inizio della camminata verso il mare, frusciavano già las ramas, fatte di eucalipto e di castagno e di mimosa e di menta. Di tutte le misure erano las ramas; alcune piccole, come quella che portava Jacinta in mano, alcune alte come cipressi. E tra queste danzavano i papagüevos, le enormi teste di cartapesta, le stesse di tutti gli anni: La Negra con i suoi quattro denti, El Chino con la pipa in bocca, Antoñillo con il cappellino arancione e bianco… Affascinavano e inquietavano Jacinta i papagüevos, con quei sorrisi esagerati e quegli occhi stralunati. Ma, fra tutti, era Faneque quello che a Jacinta piaceva e spaventava di più. Il meno singolare, il più reale. Faneque, che era solo un uomo. E che uomo! Bello, giovane, con la pelle tostata e una barba corta, con il sorriso rassicurante e gli occhi malinconici. E poi quel collo enorme che a Jacinta faceva immaginare un corpo forte e possente.
«Uno come Faneque, uno così mi devi mandare, Virgencita» mormorò Jacinta e rise con civetteria.
Poi iniziò a suonare la banda di Guayedre e la folla scoppiò a cantare e ballare. La Madelón suonava la banda di Guayedre, e Jacinta cantava, e le veniva da ridere perché era una canzone vecchia e piccante che parlava di una donna e di un battaglione. E ridendo e cantando, Jacinta fu trascinata dalla folla in gran subbuglio, sovrastata da las ramas e dai papagüevos e, ancora più in alto, dal sole rovente. Per quattro ore camminò Jacinta, in mezzo alle strade di Agaete, agitando la rama e ripetendo a se stessa la preghiera. E poi, quando fu davanti al mare, si staccò dalla folla per andare a colpire le onde con la rama, come facevano alcuni, perché la preghiera fosse ascoltata.
Lasciò le scarpe sulla spiaggia ed entrò in acqua fino a bagnarsi le ginocchia e il vestito. Colpì con forza Jacinta, fino a perdere il fiato. Poi tornò in spiaggia e si sdraiò sui sassi neri ansimando, con la rama bagnata al suo fianco, ripetendo ancora la sua preghiera a occhi chiusi.
Allora sembrò a Jacinta che il baccano tutto a un tratto si spegnesse. Sentiva solo le onde e il proprio respiro. E freddo sentiva Jacinta, come se anche il sole si fosse spento. Poi una voce bassa, profonda, come avrebbe potuto essere quella di Faneque le arrivò dall’alto:
«Deve essere una cosa importante» disse la voce.
Aprì gli occhi e vide in controluce un uomo in piedi, sopra di lei, che la guardava.
«Come dice?» chiese Jacinta.
«La sua preghiera… Mi sembrava molto…molto devota».
Visto dal basso, parve a Jacinta un uomo alto, di larghe spalle. Con la mano destra, forte e dura di chi lavora la terra, reggeva il collo di una bottiglia.
«Certo!» disse Jacinta, «io sono molto devota alla mia Virgencita de las Nieves. Lei no?» e si mise a sedere.
L’uomo scosse il capo. «Mia moglie lo era».
«Faceva bene sua moglie» disse Jacinta porgendo la mano destra perché l’uomo l’aiutasse ad alzarsi.
Lui strinse forte la mano. «Io sono Ramiro» disse e tirò Jacinta su.
Lei si sentì leggera, come una ragazza. «Io… io… io sono Jacinta» disse timida e disorientata.
Sentì l’odore di Ramiro che le reggeva ancora la mano. Era un odore di legna e di sudore, di tabacco e di bar. Era un uomo Ramiro, un uomo come poteva essere Faneque. O meglio, come avrebbe potuto diventare Faneque se fosse stato vero e fosse invecchiato.
«Lei è da sola, Jacinta?»
«Sono da sola, si» rispose, con una voce seducente. E subito dopo, correggendo il tono: «Cioè, qui sono da sola. Ma a casa mia no. Sono ben accompagnata io!» disse, quasi con sdegno.
Ramiro le lasciò la mano.
«Fortunato l’uomo che sta con Lei, Jacinta». Lo sguardo gli mutò, aggrottò la fronte e diede un sorso alla bottiglia.
«Ma quale uomo!» rise Jacinta di gusto. «Sette!» Disse, e diede un colpetto col dorso della mano al petto di Ramiro.
Lui spalancò gli occhi. Erano di un blu profondo e misterioso.
«Sette gatti ho a casa!» disse Jacinta e rise.
Ramiro cadde a terra, fingendo di essere stato colpito da un proiettile. Poi si mise a ridere pure lui.
«Si sieda con me Jacinta, che ho bisogno di riprendermi».
Si sedette Jacinta e parlarono. Per ore parlarono, quasi fino al tramonto. Della defunta moglie di Ramiro, dei gatti, di Agaete e della Virgen. Poi Jacinta prese la sua rama e fece per alzarsi.
«Io me ne devo andare» disse, «si fa buio, e ho ancora tutto il sentiero da fare».
«Scherza? La porto io Jacinta. Non si preoccupi».
E parlarono ancora, finché non fu notte. Allora lei disse:
«Mi porti a casa Ramiro, che ho i gatti che mi aspettano».
Si alzarono e andarono a deporre la rama davanti alla Virgen. Con fervore pregò Jacinta, fino a farsi venire le lacrime. Poi, mano nella mano, attraversarono il paese, che era ancora una festa, e Ramiro lasciò cadere la bottiglia vuota per terra, in un mucchio di altre.
Andarono in macchina; un vecchio fuoristrada velato di terra che dentro aveva l’odore di Ramiro, ma più pungente.
Lui si chinò verso il lato di Jacinta e strisciò la mano sulla coscia di lei, poi proseguì verso il portaoggetti e estrasse una bottiglia di anice. L’offrì a Jacinta, che rifiutò, e poi diede un lungo sorso. Avviò la macchina e partirono.
Era diventato silenzioso Ramiro. Jacinta parlava ma lui tagliava corto. Beveva ancora lunghi sorsi e guidava. Gli occhi fissi sulla strada illuminata dai fari della macchina. Conosceva bene Jacinta quel percorso, lo faceva sempre con l’autobus quando doveva portare la spesa. Ma, ad un certo punto, Ramiro sterzò bruscamente ed entrarono in una strada sterrata che Jacinta non aveva mai visto.
«Non è di qua, Ramiro».
«Faccio una scorciatoia» disse lui, senza guardarla.
«Ma questa strada va da un’altra parte» si sentiva nervosa Jacinta.
Ramiro andava veloce. «Ramiro, dove va? Mi sta spaventando».
Dopo un po’ lui fermò la macchina di scatto e una coltre di terra la avvolse.
«Vede che ha sbagliato. Torni indietro».
Ramiro mise una mano sulla coscia di Jacinta.
«Mi porti a casa Ramiro» disse lei. E lui le strinse la gamba.
«Ramiro, non qui. Mi porti a casa per favore, che è ubriaco».
Ramiro tolse la mano dalla coscia e la portò alla nuca di Jacinta.
Infilò le dita tra i capelli.
«Mi porti via Ramiro, la prego».
Con l’altra mano Ramiro aprì la cerniera del pantalone, ansimando.
«Ramiro la prego, non qui, andiamo via».
Allora lui le prese con forza la testa e se la portò fra le gambe.
Jacinta si dimenava con forza e urlava e stringeva i denti. Ma le urla morivano tra i pantaloni di Ramiro.
Mezz’ora dopo uscì Jacinta dalla macchina con le lacrime agli occhi e una macchia di rossetto e di sangue sparpagliata sulle guance. E si mise a correre Jacinta. In mezzo alla sterpaglia si mise a correre, lontana dalla macchina, che restò ferma con i fari accessi. Corse Jacinta, e il vestito gli si riempi di cardi, e le spine dei cactus le graffiarono le caviglie. Andò lontano Jacinta, senza sapere dove, fino a restare senza fiato, al chiaro di luna, inseguita dalla propria ombra. Si guardava indietro Jacinta, e a volte le sembrava di vedere Ramiro, e a volte le sembra di vedere Faneque. Inciampava sui sassi e si rialzava, finché non ne potè più e rimase a terra, stanca di correre, e di piangere, e di pregare la Virgen.
Si svegliò quando il sole era alto Jacinta, con le labbra screpolate, bagnata di sudore. Si alzò a fatica e si mise a camminare scalza, trascinando i piedi, sul terreno arido. Davanti a lei non un’ombra, non un sentiero, non una casa, non un latrato di cane.
Cinque gatti aspettano Jacinta affacciati alla finestra. Non la vedono dal giorno in cui lei andò ad Agaete. Ai lati del muretto a secco ci sono decine di sassi.
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